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La Siria, ma cos’è?

Certo, in Siria c’è una guerra. L’Occidente se ne è accorto solo ora. Nessuno, o quasi,  sa niente della dittatura degli Assad, che dura ormai da quasi cinquanta anni, ma non importa.

In questi giorni si leggono cose come queste, che già dal titolo sono tutto un programma: Vi racconto cosa sta accadendo in Siria e perché in Italia non viene detta la verità: a colloquio con Mimmo Srour (siriano)

“Srour è nato a Nakib, in Siria, dove è rimasto fino al momento di intraprendere gli studi universitari. Il suo vero nome è Mahmoud ma tutti lo chiamano “Mimmo” fin da quando venne in Italia, nel 1969, per laurearsi in Ingegneria presso l’Università dell’Aquila, città dove ha deciso di restare mettendo sù famiglia….”

Ed ecco che “Mimmo” ci regala verità:

Domanda: Assad è stato sempre descritto come una persona diversa dal padre, molto più aperto. Qual è il suo commento?

Risposta: Ma a chi vogliono far credere che questo ragazzo sia un dittatore. La Siria è un paese che ha una Costituzione e un Parlamento da almeno 60 anni. Assad è uno che accompagna i figli a scuola, ha studiato all’estero, è un oculista, e in fondo non voleva neanche fare questo mestiere, si è trovato al posto del padre probabilmente a causa della morte del fratello. Veramente è incredibile quello che avviene e come sta accadendo, tutto quello che sta accadendo in Siria è stato progettato e scritto anni fa dai neoconservatori americani e adesso Obama lo sta mettendo in atto, credevamo che lui era diverso e invece non lo è per niente. Se è vero che l’obiettivo sono le riforme, ci sarà un modo per far sedere tutti attorno a un tavolo e discutere del futuro della Siria. E’ necessario mettere le bombe? Le infrastrutture in Siria sono state demolite, stanno riducendo il Paese all’età della pietra. Le ferrovie non esistono più, tutti i ponti ferroviari sono stati fatti saltare. Le centrali elettriche sono state distrutte e metà paese è stato ridotto al buio. Distrutti anche gli oleodotti, c’è una carenza di gas e le famiglie non possono cucinare e in inverno non potranno riscaldarsi. Ma perché tutto questo? A cosa serve, se non a distruggere un paese.

Bene, Bashar El Assad è “ragazzo che porta i figli a scuola”. Ma come è arrivato al potere? E come ci arrivo’ suo padre? Come inizio’ il regno degli Assad, incontrastato da più di quarant’anni, senza essere mai stato turbato da elezioni? Dobbiamo fare un bel salto all’indietro e tornare al partito socialista Ba’ath (حزب البعث العربي الاشتراكي‎ Ḥizb Al-Ba‘ath Al-‘Arabī Al-Ishtirākī).

Il partito, fondato da Michel Aflaq, damasceno di famiglia borghese cristiano-ortodossa. Le ideologie sulle quali il partito si fondava erano un misto di nazionalismo, pan-arabismo e socialismo arabo, le stesse che avevano fatto la fortuna di Nasser. Era il 1947 e il Ba’ath trovo’ subito larghi consensi in Siria e Iraq.

Nel 1920 era stato stabilito un regno arabo indipendente di Siria, sotto il re Faysal della famiglia hashemita, che in seguito divenne re dell’Iraq. Il 23 luglio, le sue forze furono sconfitte dall’esercito francese nella battaglia di Maysalun. La Lega delle Nazioni pose la Siria sotto il mandato francese e le truppe francesi la occuparono. Nel 1936 il 17 aprile, fu firmato un trattato franco-siriano che riconosceva l’indipendenza della Repubblica della Siria, il cui primo presidente fu Hashim al-Atassi, già primo ministro con re Faysal. Il trattato tuttavia non venne ratificato e la Siria era ancora sotto il controllo francese quando scoppiò la seconda guerra mondiale. La Siria allora fu  teatro di combattimenti tra le truppe del governo di Vichy e l’esercito britannico, che ne prese il controllo nel 1941. La Siria proclamò nuovamente la propria indipendenza, che venne riconosciuta a partire dal 1 gennaio 1944 e le truppe francesi si ritirarono nell’aprile del 1946.

Il 7 luglio del 1947 si tennero le prime elezioni dall’indipendenza. Tra il 1946 e il 1956 si ebbero ben 20 diversi governi e si discussero quattro versioni differenti della costituzione. Nel 1951 prese il potere il colonnello dell’esercito Adib Shishakli, che venne tuttavia rovesciato nel 1954. Nel 1948 la Siria aveva partecipato alla guerra arabo-israeliana: l’esercito siriano fu respinto dal territorio israeliano, ma mantenne i precedenti confini, fortificandosi sulle alture del Golan.

Contestualmente alle prime elezioni, nel dicembre 1947, (quindi prima della guerra di aggressione contro Israele)  ad Aleppo gli Ebrei subirono il più sanguinoso pogrom dopo quelli del 1853 e del 1875. Sinagoghe, scuole, orfanotrofi, case di proprietà degli Ebrei, furono distrutte. Fu l’inizio della fine della comunità ebraica siriana e il primo esodo degli Ebrei siriani in Israele. Non ci sono Ebrei attualmente in Siria.

Ma torniamo al Ba’ath. Nelle elezioni del 1952 divenne il secondo partito del Paese. Con il partito comunista siriano, fondo’ la UAR, Lega delle repubbliche arabe unite, insieme all’Egitto. Il sogno di Nasser: “Siamo arabi, non più solo egiziani”. Fallimento dell’esperimento e colpo di Stato che nel 1961 sciolse l’Unione. Intanto Aflaq, deluso della messa in atto dei suoi ideali, si trasferi’ in Iraq, dove favori’ l’ascesa del più famoso ba’athista del Paese: Saddam Hussein. Non fu contento nemmeno di questi esiti, ma a quel punto fu messo a tacere e se ne riparlo’ solo in occasione dei suoi imponenti funerali. E Hafez El Assad? Fu ba’athista della prima ora e si addestro’ militarmente in Unione Sovietica. Con la UAR si sposto’ direttamente al Cairo e dal Cairo tento’ di minare le basi della UAR, asserendo che avrebbe concentrato troppo potere nelle mani del solo Nasser. Nel ’63, nel periodo di ascesa massima del partito Ba’ath, Hafez divenne capo dell’aviazione siriana. Quando nel ’66 un gruppo radicale del Ba’ath rovescio’ il governo fu la fine di ogni parvenza di democrazia. Il Parlamento non ebbe più alcun senso, ci fu un partito unico.

Nel ’66 prese il potere Salah Jadid, ba’athista radicale. La sconfitta della Guerra dei Sei giorni, la perdita del Golan ed il suo conseguente appoggio all’Olp gli costo’ caro in termini di popolarità. Ne approfitto’ Hafez El Assad che lo rovescio’ con un colpo di Stato, imprigionandolo. Comincio’ il regno degli Assad. Non riusci’ a scalfirlo l’assalto dei Fratelli Musulmani che fu represso in un bagno di sangue, nel 1982, nel dimenticato massacro di Hama, durante il quale morirono, furono imprigionati e torturati migliaia di siriani, indipendentemente dal ruolo che avevano avuto o meno nella tentata insurrezione. Non cadde nemmeno con la fine della guerra fredda e la dissoluzione dell’URSS, della quale era stato strumento.

Hafez mori’ nel 2000 e, come si conviene a ogni dittatura che si “rispetti” gli succedette Bashar. I tempi erano cambiati ma per gli Assad questi rivolgimenti si erano fermati all’immagine più moderna che Bashar offriva pubblicamente; per il resto tutto resto’ immutato. Cosi’ davanti ai tentativi di rovesciare il suo regime, Bashar non ha saputo fare altro che seguire le orme del padre e uccidere. La Russia non lo ha mai lasciato solo; i suoi veti all’Onu contro qualunque intervento e le sue forniture di armi sono state essenziali per Bashar. Perché? La Russia ha una installazione navale in Siria, che è strategicamente importante ed è l’ultima base militare estera al di fuori dell’ex Unione Sovietica; la mentalità da “guerra fredda” persiste e consiglia di mantenere una delle sue ultime alleanze militari; l’intervento internazionale è ancora considerato dalla Russia moderna “attacco imperialista occidentale”;  la Siria è un ottimo acquirente di armi e attrezzature militari russe, e la Russia ha bisogno di soldi.

Per l’Iran poi la Siria rappresenta il cuscinetto tra il paese e l’odiato Israele, il punto di arrivo e partenza per lo smistamento di armi verso Hizbollah e Hamas (nonostante l’alterna fedeltà di questi ultimi). Cosi’ veniamo ai giorni nostri. Il 26 gennaio 2011, Hasan Ali Akleh si da fuoco per protesta contro il regime di Bashar El Assad.

Scoppiano i tumulti. Il regime dichiara lo stato di emergenza. Human Right Watch denuncia la scomparsa di alcuni attivisti contro il regime, in LIbano. “Sembra che il Libano stia facendo il lavoro sporco per la Siria”. I Kurdi siriani scendono in piazza contro il regime.

Le manifestazioni si susseguono in tutta la Siria. Siamo al marzo 2011.

Ancora sono i siriani a capeggiare le manifestazioni, la Jihad islamica mondiale non è ancora sopraggiunta. Attivisti come Suheir Atassi e Khamal Sheikho sono arrestati.

Le proteste continuano e accusano il governo di corruzione

A Dara’a la polizia attacca un funerale e spara lacrimogeni che sembrano molto più tossici di quelli usati solitamente: “Molti hanno accusato sintomi prossimi alla paralisi o al soffocamento”.  I dimostranti cantano: “No no allo stato di emergenza. Siamo gente innamorata della libertà”. Il 21 marzo a Dara’a sono uccisi sette ufficiali di polizia, durante gli scontri. La pagina Facebook “The Siryan Revolution 2011” invita a scendere in piazza. Gli slogan ora sono: Dio, Siria e Libertà.

L’Onu sembra scuotersi per un attimo dal letargo e Navi Pillay chiede un’indagine sulla morte di sei attivisti.

I morti si susseguono e le manifestazioni si infiammano sempre di più. La polizia ormai spara anche sui bambini. Il 25 marzo gli slogan scanditi dai manifestanti accusano il fratello di Bashar di codardia: “Maher vigliacco, manda l’esercito a liberare il Golan“.

Non più “libertà e giustizia”, ma Israele come nemico e Dio come alleato. Nessuno noto’ all’epoca il cambiamento delle piazze? Non più solo esercito e manifestanti anti governativi si affrontano ora: agli scontri si aggiungono manifestanti pro-Assad, in risposta all’appello del governo. I manifestanti anti-Assad sono ora armati:

“Una fonte ufficiale ha detto che un gruppo armato, salito sui tetti di alcuni edifici a Douma, dopo mezzogiorno, ha aperto il fuoco su centinaia di cittadini e sulle forze di sicurezza”. E’ il primo aprile 2011. Si affaccia sulla scena Erdogan che dice: Ci penso io a spingere Assad alle riforme; “la Turchia sta osservando la reazione del popolo siriano alle parole e alle azioni di Assad, finora”. E’ la prima “uscita pubblica” di un capo di Stato in merito alla situazione siriana. Assad libera prigionieri politici e cambia i membri del governo, ma le proteste non si arrestano e nemmeno le vittime.

La Ashton si pronuncia: “Le violenze devono finire. La prima cosa che dobbiamo fare è fermare la violenza. Il governo ha avuto modo di considerare serimente le sue reponsibilities”, dichiaro’ ad Al Jazeera. Il governo parla di “insurrezione armata”: “Alcuni di questi gruppi hanno chiamato all’insurrezione armata sotto il motto della Jihad, per istituire uno stato salafita”, dichiaro’ il ministero degli interni, in un comunicato. “Quello che hanno fatto è un crimine orribile, severamente punito dalla legge. Il loro obiettivo è quello di diffondere il terrore in tutta la Siria.” E’ ancora l’aprile 2011, la protesta è già nelle mani della Jihad islamica.

Che fine avevano fatto i manifestanti che, pacificamente, avevano iniziato la rivolta in Siria? Perché né l’Onu né la politica internazionale fece mostra di accorgersi della piega che stavano prendendo gli avvenimenti? Come mai gli appelli della Jihad islamica che incitava i salafiti di tutto il mondo a radunarsi in Siria e combattere, furono ignorati?

Dalla Tunisia all’Egitto, i Fratelli Musulmani incitavano a raggungere la Siria e combattere: “Chiunque ha la capacità di uccidere … deve andare”, disse al-Qaradawi, dal  Qatar. “Non possiamo chiedere ai nostri fratelli di essere uccisi mentre guardiamo.” E Morsi, che si vedeva sfuggire il potere di mano:

“Chiediamo ai popoli arabi e islamici di stare con i loro fratelli siriani – quelli rimasti nel paese e quelli che sono stati costretti a fuggire in altri paesi vicini. Non dovremmo essere ingiusti, arrenderci o deluderli. Religione, virilità e cavalleria ci chiedono di essere al loro fianco e sostenerli finanziariamente e moralmente “.

Da tutti i Paesi arabi e perfino dalla Bosnia, dall’Australia, dalla Cecenia e dall’Europa sono accorsi in Siria migliaia di jihadisti, rispondendo all’appello.

Non ci interessa qui analizzare i rapporti di forza tra le varie potenze, chi arma chi, chi combatte contro chi, gli interessi in gioco. Ci limiatiamo a una cartina molto parziale delle parti in campo, apparsa su un blog e ripresa dal  Washington Post

E questa, apparsa su Elders of Zyon

Quello che ci sembrava interessante, mentre l’Occidente si limita a interrogarsi in merito a “intervento si’ o no”, senza preoccuparsi di gettare nemmeno uno sguardo alla storia della Siria e all’evoluzione della guerra civile che ormai ha fatto oltre 100.000 morti, era tentare di capire quando e come la protesta legittima e pacifica contro una dittatura feroce, una “monarchia” che dura da quarant’anni, sia stata fagocitata dalla Jihad islamica e abbia ridotto il conflitto allo scontro tra una dittatura sanguinaria e gruppi di “ribelli” altrettanto feroci. E di come l’Occidente (qualsiasi cosa vogliamo significare con il termine) sia rimasto a guardare, della sua ipocrisia che gli ha fatto gridare all’orrore solo dopo migliaia di morti anonimi. E di come ora chieda ai cittadini di schierarsi quando ormai non c’è più nulla da difendere.

Chi non vuole la pace?

I negoziati di pace per tentare di risolvere il conflitto arabo/israeliano sono faticosamente ripresi. Il Segretario di Stato americano Kerry sembra seriamente impegnato nella sua missione diplomatica, ma c’è anche chi si pone decisamente al servizio delle forze politiche ostili ad ogni possibile normalizzazione.

Manifestazioni di giornalisti inscenate a Qalandia

E’ il caso del reporter palestinese Fadi Aruri, già impegnato con l’agenzia Reuters e con China’s Xinhua News Agency. Aruri, ufficialmente licenziato dalla Reuters, continua il suo sporco “lavoro” come free-lance. La campagna anti-normalizzazione non fa distinzione tra eventi politici, accademici o economici. Qualunque attività corra il rischio di normalizzare i rapporti con la “potenza occupante”, perfino quando si tratta di eventi sportivi riservati ai bambini, è ferocemente attaccata e boicottata. Cosi’, ad esempio, Fatah condanna gli incontri tra rappresentati dell’Olp e politici israeliani. Fatah controlla il sindacato dei giornalisti in Giudea Samaria e aderisce alla campagna anti-normalizzazione a proposito delle trattative di pace.

“Condanniamo la normalizzazione e chi la vuole. Tali riunioni (Olp/Israele) sono prive di contenuto politico e sono una perdita di tempo. Sono ingiustificate, a livello nazionale e politicamente “.

L’attività anti normalizzazione di Fadi Aruri si avvale, ovviamente, del suo “strumento del mestiere” , come mezzo privilegiato di propaganda. Le sue foto appaiono su AP, Apollo Images, Maan News e Al-Ayyam. Non tutti i giornalisti palestinesi sono d’accordo con questa posizione politica che rifiuta qualsiasi tentativo di pace, ma il loro dissenso lo esprimono in forma anonima, per evitare possibili ritorsioni. Cosi’, un giornalista palestinese ha raccontato a Honest Reporting i retro-scena di quelle che sono poi presentate al mondo come “legittime proteste”:

Il 17 luglio, “Aruri ed i suoi amici hanno organizzato una marcia di giornalisti palestinesi al checkpoint Qalandiya, dove hanno messo in scena uno scontro con i soldati israeliani,” ha detto l’anonima fonte.

“Gridavano contro i soldati in modo da poter ottenere foto vendibili. Guardando le foto, si nota come Aruri e gli altri si alternavano nel confronto con i soldati, in modo da potersi fotografare l’un l’altro. Non si trattava di vera protesta. Era un circo. ”

La Ma’an News Agency, con base a Betlemme, ha pubblicato in proposito quello che si puo’ definire un saggio fotografico. E la Federazione internazionale dei giornalisti ha denunciato l’IDF per le “dure restrizioni” e il suo “comportamento brutale.” Secondo la IFJ, sette giornalisti sono rimasti feriti durante la manifestazione. Ecco un esempio di una foto che Aruri ha scattato e  postato su Facebook.

Nel maggio del 2012, continua la fonte

il consolato degli Stati Uniti ha organizzato un evento a Ramallah, in occasione dell’International Press Freedom Day, e Aruri condusse la sua campagna contro gli americani. Non voleva palestinesi presenti alla manifestazione perché organizzata dagli americani. Aruri vede l’America come il nemico. Questo non ha nulla a che fare con Israele. Questo evento fu coperto dai media internazionali. Si tratto’ di un caso di stage, un evento costruito,  inscenato dagli stessi giornalisti che poi ne diedero diffusione “.  

Infatti, Al Aqsa Press, agenzia di stampa affiliata a Fatah, cito’ Aruri come uno degli organizzatori della protesta: 

Fadi Aruri, uno dei giornalisti palestinesi, ha spiegato che i giornalisti hanno deciso di mettere in scena un sit-in di protesta contro la manifestazione organizzata dal consolato degli Stati Uniti. Egli ha osservato che il Sindacato dei giornalisti palestinesi, che rappresenta tutti i giornalisti di diversa estrazione politica, aveva chiamato al boicottaggio della manifestazione, in solidarietà con i prigionieri palestinesi.  

Nonostante questo odio per gli Stati Uniti, Aruri ha ottenuto un incarico prestigioso, in seguito. Nel marzo 2013, l’Ufficio stampa gestito dall’Amministrazione palestinese, lo ha selezionato per il servizio fotografico in occasione della visita del Segretario di Stato americano,  John Kerry, a Ramallah.

La settimana scorsa Mohammed Najib, un noto giornalista palestinese che lavora per la nuova stazione TV israeliana, I24 News:

“Stava lavorando nel centro di Ramallah a intervistare la gente per strada quando arrivo’ Aruri a incitare la gente contro di lui. Aruri diceva alla gente di non parlare con Najib perché lavora per un’organizzazione di propaganda israeliana. Diverse persone si radunarono intorno a Najib che non poté continuare le interviste per paura della sua vita “.

HonestReporting ha chiesto a Najib se intendesse presentare un reclamo formale ai servizi di sicurezza palestinesi e al PJS. L’appello alla “giustizia tribale tradizionale”, non ha fatto molta differenza:

“Vengono dallo stesso paese di Aruri e così agli anziani del villaggio è stato chiesto di mediare. Ma le scuse non faranno alcuna differenza, perché il danno è già stato fatto. E le scuse non aiuteranno il prossimo giornalista israeliano che sarà attaccato in Cisgiordania “.

Il giornalista israeliano Yoram Cohen era a Ramallah per una conferenza stampa, quando alcuni giornalisti palestinesi protestarono contro la sua presenza. In quell’occasione, il Jerusalem Post scrisse:

Il tentativo di Cohen per spiegare di aver ricevuto il permesso dal vice ministro dell’informazione dell’Amministrazione palestinese per coprire la conferenza stampa non ha convinto i giornalisti, che gli hanno chiesto di andarsene immediatamente. Il funzionario palestinese ha negato di aver  concesso il permesso a Cohen.

Aruri fu uno degli ideatori della protesta.

Ed è sempre Aruri che ha condotto la campagna di boicottaggio contro l’apertura del punto vendita Fox,  compagnia israeliana di vendita di abbigliamento, a Ramallah, boicottaggio che è costato ai palestinesi centinaia di posti lavoro persi. Dice Aruri in proposito:

“L’apertura di Fox a Ramallah è un macchia di disonore alla luce delle richieste di boicottaggio dello Stato di occupazione e dei suoi prodotti.” 

Aruri ha anche accusato il Ministero dell’Economia dell’ Amministrazione palestinese di facilitare l’ingresso dei prodotti israeliani sul mercato palestinese,  permettendo di lavorare nei territori palestinesi ad aziende israeliane e commercianti. E’ sempre la fonte di Honest Reporting a parlare:

“Aruri ha diritto alle sue opinioni, ma una volta diventato un vero attivista, è molto immorale per Xinhua, Reuters o  qualsiasi altro mezzo di informazione, fare affidamento su di lui. Se è coinvolto in attività politiche, è un problema etico. Reuters avrebbe mai assunto un “colono” come suo corrispondente da Gerusalemme? “

Fadi Aruri ha irresponsabilmente offuscato il confine tra giornalismo e attivismo, sollevando interrogativi importanti per la comunità giornalistica. Perché Xinhua e Reuters continuano la loro collaborazione con lui? Qual è il vero motivo che spinge i giornalisti palestinesi schierati contro la normalizzazione a voler lavorare in Israele? Chi sono gli altri fotografi che hanno manifestato al checkpoint Qalandiya? E in quali agenzie di  informazione sono impiegati? La Federazione internazionale dei giornalisti è pronta a condannare Aruri e gli altri fotografi con la stessa rapidità che impiega nel denunciare Israele? La comunità dei giornalisti è pronta a criticare Aruri? Come dovrebbero rispondere i giornalisti israeliani  alle intimidazioni da parte dei loro colleghi palestinesi? Quanto sono affidabili i fotografi palestinesi? Possono i funzionari americani contestare le scelte del Palestinian Press Organization? E soprattutto, chi guadagna dalla non-normalizzazione del conflitto? Di chi cura gli interessi Aruri?

Grazie a Honest Reporting

Sulla manipolazione mediatica vedi anche

http://bugiedallegambelunghe.wordpress.com/2012/09/20/la-raffinatissima-sensibilita-degli-esperti/

http://bugiedallegambelunghe.wordpress.com/2012/07/11/fauxtography/

http://bugiedallegambelunghe.wordpress.com/2012/07/09/credimi-ti-sto-mentendo/

Per la Ashton è semplice questione di business

Catherine Ashton si rifà viva. La sua ossessione questa volta ha la forma delle Nuove Linee Guida UE per Israele. Se ne è parlato molto e spesso a sproposito: non si tratterà di un boicottaggio commerciale, la questione è più simbolica che altro, ma il suo peso ce l’ha, eccome! L’Europa si arroga il diritto di decidere quali debbano essere le frontiere israeliane

“L’UE non riconosce la sovranità di Israele su alcuno dei territori di cui al punto 2 e non li considera parte del territorio di Israele, indipendentemente dal loro status giuridico secondo il diritto nazionale israeliano. L’UE ha messo in chiaro che non riconoscerà alcun cambiamento dei confini precedenti al 1967, diversi da quelli concordati tra le parti al processo di pace in Medio Oriente (MEPP, Middle East Peace Process).”

Ecco che le linee armistiziali del 1949, diventano “confini”.

Ovviamente (anche se per la UE le evidenze non sembrano essere tali), l’Amministrazione palestinese ha espresso preoccupazione per le nuove linee guida:

”Da parte nostra – ha detto l’anonimo funzionario – abbiamo avvicinato un certo numero di funzionari europei, qui e in Israele, per cercare di evitare la decisione, o almeno di mantenerla a livello non ufficiale” giacché “rischia di rivelarsi economicamente e socialmente disastrosa per la comunità palestinese”.

Cosi’, mentre il segretario di Stato americano Kerry gira vorticosamente tra i Territori, Israele e Giordania per cercare di convincere Sua Maestà Abbas I a tornare ai tavoli delle trattative, la UE se ne esce con questa “bella idea”, contro ogni logica. Volendo seguire il ragionamento dei solerti funzionari europei, ci si potrebbe chiedere perché non ci siano risoluzioni che obblighino la Spagna a rendere al Marocco Ceuta e Melilla,  o all’Inghilterra di rendere Gibilterra che occupo’ con la forza alla Spagna. Le isole Malvine che occupo’ all’Argentina. E perché la UE non obbliga i Paesi Bassi a rendere le Antille olandesi agli autoctoni? O la Francia a rendere la Guadalupa, la Martinica, Saint Pierre e Michelon, la Polinesia e le terre australi e antartiche che usa per i suoi esperimenti nucleari?  Poi ci sarebbe il Portogallo che potrebbe essere obbligato a rendere Macao e Timor. 

 Sono ovviamente domande retoriche. Ma forse, un po’ meno retorico sarebbe chiedersi quali siano stati i prodromi di queste nuove linee guida europee. Nell’aprile 2013, il gruppo dei “saggi” incaricati di monitorare il “processo di pace” in Medio Oriente, decise che gli “accordi di Oslo” erano finiti e che la soluzione “a due Stati” era seriamente messa in pericolo da “le dure condizioni di vita sotto l’occupazione”. E ritennero opportuno rilevare che

E’ il momento di dare un duro segnale che avvisi quanto l’occupazione sia effettivamente radicata nella presente politica occidentale. L’Autorità palestinese non può sopravvivere senza appoggiarsi sull’assistenza alla sicurezza israeliana e il finanziamento occidentale  e che la PA, che offre poche speranze di progressi verso l’autodeterminazione per il popolo palestinese, sta rapidamente perdendo il rispetto e il sostegno del suo collegio elettorale nazionale. Il costante aumento della portata e della popolazione degli insediamenti israeliani, tra i quali Gerusalemme Est, e il radicamento del controllo israeliano sui Territori Occupati, in spregio al diritto internazionale, indicano una tendenza permanente verso una frattura completa dei diritti territoriali palestinesi…. Siamo giunti alla conclusione che ci debba essere un nuovo approccio. Lasciare la situazione permanere senza indirizzo è altamente pericoloso, quando una questione esplosiva si trova in un ambiente così turbolento. Una politica realistica ma attiva, da impostare nel contesto degli attuali eventi regionali, deve essere composta dai seguenti elementi: 

– Una maggiore attenzione alla necessità essenziale per una soluzione a due Stati, come l’esito più probabile di offrire una pace duratura, la sicurezza per le parti e gli Stati limitrofi, unico riconosciuto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, come giusto ed equo; 

 – Un esplicito riconoscimento che lo stato attuale dei Territori palestinesi è di occupazione,  e la responsabilità per la loro condizione che rientra nella leggi internazionali riguardanti lo Stato occupante; 

L’insistere sul fatto che gli insediamenti israeliani al di là del 1967 sono illegali, devono cessare di essere ampliati e non saranno riconosciuti come uno dei punti di partenza di qualsiasi nuovo negoziato; 

– La clausola che ogni organizzazione politica rappresentativa, che presenti una richiesta valida di partecipazione ai negoziati deve rinunciare all’uso della violenza al di fuori delle norme che l’ONU ha istituito;

– Il rinnovo degli sforzi per stabilire una rappresentanza palestinese unificata sia della Cisgiordania che di Gaza; senza una pace globale non ci può essere negoziato fruttuoso e l’assenza della quale serve come scusa per non agire;

– La promozione della riforma della Organizzazione per la liberazione palestinese (Olp), compresa la rappresentanza di tutti i principali partiti palestinesi impegnati per la non violenza e che riflette la volontà espressa della popolazione di palestinese in Cisgiordania e Gaza;

– Un’unità internazionale vigorosa per migliorare le condizioni umanitarie e dei diritti umani sia in Cisgiordania che a Gaza, con il monitoraggio delle Nazioni Unite;

– Una riconsiderazione delle modalità di finanziamento per la Palestina, al fine di evitarel’ attuale dipendenza dell’Autorità Palestinese dalle fonti di finanziamento che servono a congelare invece di promuovere il processo di pace;

Un impegno chiaro e concertato per contrastare la cancellazione dei confini del 1967 come base per uno schema a due Stati. Ciò dovrebbe includere una chiara distinzione nei rapporti dell’UE con Israele, tra ciò che è legittimo – entro i confini del 1967 – e  cio’ che viola il diritto internazionale nei territori occupati;

– Una volontà chiara all’interno dell’UE a svolgere un ruolo politico fondamentale per riprendere un dialogo più strategico con i palestinesi.

Ecco qua chi ha partorito le Nuove Linee UE per Israele. Chi firmo’ questo “appello” rivolto a Catherine Ashton?

Giuliano Amato, ex Primo Ministro d’Italia; Frans Andriessen, ex vice-presidente della Commissione europea; Laurens Jan Brinkhorst, ex vice-primo ministro dei Paesi Bassi; John Bruton, ex primo ministro dell’Irlanda; Benita Ferrero-Waldner, ex commissario europeo ed ex ministro degli Esteri dell’Austria; Teresa Patricio Gouveia, ex ministro degli Esteri del Portogallo; Jeremy Greenstock, già ambasciatore britannico alle Nazioni Unite e co-presidente del EEPG; Lena Hjelm-Wallen, ex ministro degli Esteri e vice primo ministro della Svezia; Wolfgang Ischinger, ex Segretario di Stato del Ministero degli Esteri tedesco e co-presidente del EEPG; Lionel Jospin, ex primo ministro di Francia; Miguel Moratinos, ex ministro degli Esteri della Spagna; Ruprecht Polenz, ex presidente della Commissione Esteri del Bundestag tedesco; Pierre Schori, ex Vice Ministro degli Esteri della Svezia; Javier Solana, ex Alto Rappresentante e ex segretario generale della NATO; Peter Sutherland, ex commissario europeo e direttore generale dell’OMC; Andreas Van Agt, ex primo ministro dei Paesi Bassi; Hans van den Broek, ex ministro degli esteri olandese e ex commissario europeo per le Relazioni esterne; Hubert Védrine, ex ministro degli Esteri di Francia e co-presidente del EEPG; Vaira Vike-Freiberga, ex presidente della Lettonia.

E che cosa rispose la Ashton? Rispose: Ma certo! Ho riguardato tutti gli accordi tra UE e Israele e risulta chiara l’inapplicabilità di tali accordi ai Territori Occupati. E altre “cosette”. Ma la Ashton chi è? E’ una ex assistente sociale, figlia di minatori -prima della sua famiglia a essersi laureata – che un giorno, all’improvviso, diventa baronessa. Wikipedia dice di lei che era un politico laburista, diventata nobile nel 1999. Ma in quale circoscrizione elettorale era stata nominata? Nessuna.  Chi giudica “fortuna” la sua ascesa vertigionosa, chi ha chiamato lei e Rompuy “nani da giardino“. La sua incapacità è stata ampiamente criticata in situazioni di emergenza, come il terremoto di Haiti, ad esempio e come il fallimento del European Defence Summit a Majorca. “Fa fatica a superare le critiche ricevute perché parla una sola lingua, per i suoi lunghi weekend trascorsi in famiglia a Londra, per la sua plateale assenza in occasione del terremoto di Haiti e il suo disinteresse per le questioni legate alla sicurezza e alla difesa.”

Malgrado ciò, nel dicembre 2010 Ashton ha affermato di aver dato “un nuovo inizio” alla politica estera. Al termine di una vera e propria battaglia tra il Consiglio, il Parlamento e la Commissione per i poteri e il controllo della nuova istituzione, quest’ultima si è ufficialmente installata il 1 gennaio. I suoi 3.650 funzionari provengono in buona parte dall’ex direzione generale per le relazioni estere della Commissione, ma anche dalla direzione generale degli affari esteri del Consiglio e dalle delegazioni dei Ventisette sparse nel mondo. Circa 120 posti, invece, devono essere ancora assegnati, e altri diplomatici dei paesi Ue entreranno a far parte del Seae.” QUI

Da poco insediata, si getta a capofitto nella gestione del “conflitto israelo-palestinese”. Maneggia milioni di euro, si getta in arditi paragoni, accostando i bambini uccisi davanti alla scuola ebraica di Toulouse a quelli di Gaza e stanzia, dopo pochissimi giorni dalla strage, 35 MILIONI di euro dei contribuenti europei a favore di due (probabilmente lussuosissimi) progetti, uno dei quali per il potenziamento del valico merci di Gaza… Bene, e poi? Che cosa è che “guida” la Baronessa Ashton (tra parentesi, dalla rete sono spariti tutti i riferimenti alla sua nomina a Baronessa, che pure all’epoca fece molto scalpore. La vita online della Ashton inizia con la sua nomina UE) nelle sue politiche di attacco a Israele? Forse una delle ragioni puo’ essere questa: la baronessa inglese ha interessi sostanziali nel Medio Oriente,  chiaramente in contrasto con quelli israeliani. Quali sono questi interessi? Scrive Rights Monitoring: La chiave per la comprensione sta in due nomi: Peter Kellner e YouGov. Il primo nome è quello del marito di Catherine Ashton e il secondo è quello della società di indagini internazionali, analisi di mercato e servizi di ricerca per i governi, della quale Peter Kellner è presidente. YouGov è diventato così importante nel settore da arrivare a influenzare le scelte di molti governi, l’economia di molti paesi e anche le tendenze del mercato. Un sondaggio di YouGov è preso in grande considerazione dalla politica, che non esita a commissionare al gruppo sondaggi di ogni genere. Ora, accade spesso che, stranamente, le indagini condotte da YouGov per il Medio Oriente penalizzino Israele mentre sembrano particolarmente benevole per le monarchie del Golfo e l’Arabia Saudita. Perché questo? Perché una società internazionale che guadagna milioni di dollari l’anno e può influenzare le politiche dei vari governi è così palesemente rivolta contro Israele? Anche qui, la soluzione si trova tra le righe, in particolare quelle relative agli azionisti della società. E’ stato molto difficile ottenere informazioni sui partner YouGov perché la lista non è pubblica. Tuttavia, alcune informazioni indicative siamo in grado di darle. Così scopriamo che tra i membri di YouGov ci sono diversi emiri del Golfo, qualche sceicco arabo e che l’azienda ha un ufficio molto importante a Dubai (presso il Centro Affari Cayan) da dove dirige tutte le ricerche sul Medio Oriente. Altre sedi sono in Arabia Saudita a Dammam, Jeddah e Riyadh. La cosa in sé non sarebbe sospetta, molte aziende internazionali hanno uffici a Dubai, solo che oltre alla presenza dei capitali di emiri e sceicchi (tra i quali l’emiro del Qatar), le ricerche e le indagini sui regni di questi ultimi sono sempre molto “rilassate”, e in pochi anni hanno favorito grandi investimenti internazionali.

YouGov poi usa la sua influenza e la sua presunta credibilità per aiutare le monarchie del Golfo che, tradotto in cifre esorbitanti, significa decine e decine di milioni di dollari nelle sue casse. E chi è il nemico giurato delle monarchie del Golfo, a partire dall’emiro del Qatar, che finanzia Hamas? Israele. Chiaro che una società come  YouGov, nella quale la partecipazione è costituita in parte da emiri e sceicchi, e che ottiene decine di milioni di dollari l’anno, possa suggerire una serie di domande che riescono a minare l’economia israeliana e anche a promuovere, in un sottile e intelligente gioco, il boicottaggio dei suoi prodotti. Questo della Ashton si chiama, ovunque nel mondo, “conflitto d’interessi”. QUI D’accordo Baronessa, abbiamo capito. Nessun pregiudizio “a priori”, semplice questione di business.

Il terrorismo in una mostra a Parigi

Basta con l’incitazione all’odio! Basta con i messaggi razzisti sul web! Stop all’antisemitismo! Sono appelli che leggiamo ovunque. In un discorso pronunciato il 5 novembre  2012, davanti all’Assemblea generale dell’Onu, il relatore speciale per le forme contemporanee di razzismo e di xenofobia, Mutuma Ruteere, ha deplorato l’aumento del razzismo su internet a livello mondiale. “Il numero di incidenti implicanti violenze e crimini a carattere razzista, perpetrati sotto l’influenza di una propaganda incitante all’odio su internet, è in aumento, malgrado l’adozione di misure positive…”

Dopo la strage compiuta da Mohammed Merah alla scuola Ozar Ha Torah di Toulouse, la Francia si interrogava: siamo di fronte a una recrudescenza di antisemitismo? Come deve reagire il governo?

Che i “discorsi d’odio” non sono innocui lo sappiamo tutti, ci sono esempi sanguinosi nella storia recente. Conosciamo il ruolo che le trasmissioni della radio “Le mille colline” in Kenya e Rwanda, hanno avuto nell’incoraggiare al genocidio. Sappiamo quanto, nei paesi arabi, i sermoni di alcuni imam abbiano contribuito agli scoppi di odio etnico e settario. Le piattaforme sociali come Youtube o Facebook invitano a segnalare post, pagine e video dai contenuti che “incitano all’odio”.

Il 30 gennaio scorso, la commissione Giustizia del Senato belga ha approvato un progetto di legge che rende punibile l’incitazione indiretta al terrorismo, il recrutamento e l’addestramento di terroristi. Adottando in questo modo nella sua legislazione nazionale una decisione-quadro europea.

Ma allora, come giudicare il museo di Parigi, sovvenzionato dal governo francese, che ha inaugurato una mostra di foto di shahid (attentatori suicidi) palestinesi, che il museo chiama “combattenti per la libertà”?

una delle foto esposte

La mostra di 68 fotografie si intitola “Morte”, di Ahlam Shibli, inaugurata il 28 maggio al Jeu de Paume, museo di arte contemporanea di Parigi. Il sito web del museo descrive i kamikaze come “coloro che hanno perso la vita nella lotta contro l’occupazione”, e la mostra come “sforzo della società palestinese, per preservare la loro presenza.” Secondo il CRIF, l’associazione delle comunità ebraiche francesi, le foto commemorano appartenenti “alle Brigate dei Martiri di al-Aqsa ‘, alle Brigate Izz ad-Din al-Qassam [di Hamas] e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. “Tutti e tre sono designati dall’Unione Europea come gruppi terroristici”.

In una delle foto appare Osama Buchkar, un operativo FPLP che ha ucciso tre persone e ne ha ferite 59 in un attacco terroristico compiuto in un mercato all’aperto a Netanya, il 19 maggio 2002. La didascalia della sua immagine dice che “ha commesso una missione martire a Netanya.”

In una lettera al ministro della Cultura e delle Comunicazioni di Francia, Aurélie Filippetti, il Presidente del CRIF, Roger Cukierman, ha definito “particolarmente deplorevole e inaccettabile una mostra che giustifica il terrorismo, nel cuore di Parigi.

Come si concilia questa iniziativa con la lotta al terrorismo nella quale la Francia si dichiara impegnata? Una mostra del genere non fa parte di quell’incitamento all’odio, condannato unanimamente da tutti i paesi europei?

una foto della mostra

“I profughi? Non diventeranno mai cittadini”, parola di Ambasciatore

L’argomento era già stato affrontato da Mahmud Abbas in passato: i profughi palestinesi non diventeranno cittadini di un eventuale Stato di Palestina. Ora il proposito torna a riaffacciarsi con forza.

L’ambasciatore palestinese in Libano

L’ambasciatore palestinese in Libano, Abdullah Abdullah, ha rilasciato un’intervista al Daily Star Wednesday, nella quale ha inequivocabilmente confermato che i profughi palestinesi non diventerebbero cittadini in uno Stato palestinese riconosciuto: “Sono Palestinesi…. è la loro identità… ma non sono automaticamente cittadini”. E l’Ambasciatore non si riferiva ai soli profughi che vivono in stati arabi, in Libano, Siria, Egitto e Giordania, ma anche a quelli che ancora vivono nei campi all’interno del territorio palestinese. “Anche i profughi che vivono nei campi all’interno dello Stato palestinese rimarranno profughi. Non saranno considerati cittadini palestinesi”.

Campo profughi in Siria

Né il presente status, né quello delle Nazioni Unite, comprenderebbero l’eventuale ritorno dei profughi in Palestina, ha detto l’Ambasciatore. “Come sarà risolta la questione del sacro diritto al ritorno non lo so, ma dovrà essere affrontata con l’accettazione di tutti”. La statualità “non potrà mai incidere sul diritto al ritorno dei Palestinesi”. “Lo Stato è nei confini del 1967, ma i profughi non sono solo quelli dei confini del 1967. I rifugiati provengono da tutta la Palestina. Quando avremo uno Stato accettato e membro delle Nazioni Unite, questa non sarà la fine del conflitto. Non sarà la soluzione al conflitto. Sarà solo un nuovo quadro che cambierà le regole del gioco “.

campo profughi in Libano

L’Organizzazione per la Liberazione Palestinese potrebbe rimanere responsabile per i rifugiati, e Abdullah dice che l’UNRWA continuerebbe il suo lavoro come al solito. L’amministrazione del presidente americano Barack Obama ha recentemente garantito di porre il veto statuale alConsiglio di Sicurezza, che lascerebbe ai palestinesi il diritto di ottenere una risoluzione dall’Assemblea Generale. Se questo accadrà, dice Abdullah, 129 paesi si sono impegnati a voti positivi.

Gli Stati Uniti hanno di recente adottato misure per dissuadere i palestinesi dal cercare di ottenere il voto delle Nazioni Unite, inviando negoziatori ad incontri con funzionari palestinesi. L’ambasciatore dice che questi colloqui non sono stati fruttuosi. “Non ci offriranno nulla … che salverà il processo di pace”, dice. “Non ci avrebbero offerto nulla se non dirci che taglieranno gli aiuti finanziari, e altre simili minacce. La dignità è molto più importante di una pagnotta di pane. ”

Le “minacce” alle quali si riferisce l’Ambasciatore riguarderebbero il disegno di legge proposto dal presidente del U.S. House Foreign Relations Committee, Ileana Ros-Lehtinen, che taglierebbe i finanziamenti degli Stati Uniti a qualsiasi organismo delle Nazioni Unite che riconosca la sovranità palestinese. Secondo Abdullah, ora è il momento di cercare il riconoscimento statuale, perché il processo di pace è stato bloccato per circa un anno, e snocciola le date delle riunioni con gli israeliani fallite , lo scorso settembre. “Queste riunioni non ci portano un briciolo più vicino a raggiungere l’obiettivo dei negoziati.” Affermando che a suo parere ci sarebbero nuovi ostacoli, tra i quali le costruzioni di insediamenti “frettolosi” e l’insistenza di Israele affinché i palestinesi riconoscano Israele come Stato ebraico o “focolare nazionale per il popolo ebraico”.

Secondo Abdullah, i palestinesi non hanno altra scelta che andare alle Nazioni Unite a negoziati bloccati “non ci è stato lasciato nulla a  proteggere il consenso internazionale della soluzione a due Stati”. “Gli Stati Uniti sbandierano di essere il campione della libertà e della democrazia in tutto il mondo, ma se negano ai palestinesi il diritto di essere liberi, di essere democratici, e di vivere con dignità, non è un buon segno per gli Stati Uniti, cio’ lascia una macchia scura … Non è buono per l’America “, dice. “L’America merita di meglio.” Accena poi alle tesioni nella regione, ricordando le tensioni tra Turchia, Israele e Egitto: “Se  politiche sbagliate saranno adottate dagli Stati Uniti, si darà solo una mano libera all’estremismo, autorizzando solo forze negative. E questo renderà più difficile e complicato per le forze razionali prevalere. ”

Fin qui il resoconto del discorso. Resta da riflettere sul cinismo di una leadership che ha imbracciato in tutti questi anni il “problema profughi” e il “diritto al ritorno” come un’arma contro Israele e che candidamente ammette ora di non essere minimamente intenzionata a integrare questi profughi che cosi’ tanto hanno fruttato loro in consensi internazionali, lasciandoli dove si trovano, nei campi squallidi di quegli stessi Paesi arabi “fratelli” che si sono lavati le mani delle loro sorti. Non diventeranno cittadini palestinesi né quelli che vivono nei campi del Libano, dove le condizioni di vita sono disastrose e le discriminazioni nei confronti dei palestinesi totali; né quelli dei campi siriani, che Assad bombarda periodicamente.

E nemmeno quelli che Hamas continua a mantenere nei campi di Gaza, nonostante abbia il controllo totale della regione dal 2005. Nulla cambierà, dice l’Ambasciatore, non sarà di certo la pace. E questo lo si era intuito da tempo: i profughi palestinesi, strumentalizzati dai Paesi arabi che, a guerra perduta, se ne sono poi lavati le mani; fatti ballare come pupazzi da tutte le leadership palestinesi che in “nome loro” hanno impietosito il mondo, riscuotendo miliardi di dollari e simpatia; utilizzati dall’UNRWA che gonfiando a dismisura il loro numero iniziale, assegnando lo status di profugo ereditariamente, si è assicurata la gestione di un giro di affari favoloso, resteranno quello che sono. Non diventeranno cittadini di quello Stato che cosi’ tanto si è avvalso di loro per nascere. Nulla cambierà. L’Olp si incaricherà di “gestirli”, l’UNRWA non correrà il rischio di chiudere i battenti e rinunciare cosi’ a maneggiare montagne di soldi. Nulla cambierà. Non ci sarà la pace “dopo”. Chissà cosa ne pensano i “profughi”? C’è di che meditare.

Piccola psico-analisi della sindrome “antisionista”

Shmuel Trigano prova ad analizzare quella che, a tutti gli effetti, possiamo ormai definire “sindrome anti-sionista”. Lo spunto parte dall’analisi di una vignetta del disegnatore Plantu, apparsa su “Le Monde”, il 3 aprile 2013.  L’analisi di Trigano:

La caricatura di Plantu mette a nudo le fondamenta della psiche collettiva.  Cio’ che immediatamente appare in questo disegno è la simmetria che il disegnatore vuole stabilire tra uno stato di cose oggettive tra i palestinesi (la separazione dei sessi nelle scuole), evento che motiva la caricatura, e uno stato di cose supposte tra gli israeliani.

esempio di vignetta falsificante la realtà, di Latuff

Due sostituzioni asimmetriche

Questa simmetria forzata (cioè la tesi che difende il disegno senza argomento), tuttavia, poggia su due sostituzioni: da un lato, il testo suggerisce che lo scopo del confronto (discriminazione di genere) è attribuita a Hamas e dall’altro lato, la scritta sullo sfondo del Palazzo ci fa capire che si tratta della Palestina. Vale la pena notare che nel disegno, l’appartenente a Hamas non è identificato graficamente come tale: solo il testo lo dice.

Questo squilibrio nella simmetria induce infatti a pensare  a una Palestina indenne da Hamas (qui “condannato”). L’implicazione è chiara: quando Israele si confronta con essa o è esposto alla sua violenza è la “Palestina” che attacca, ma quando i palestinesi attaccano, è Hamas che è colpevole. Quindi, la “Palestina” è presentata “incolpevole” della politica di Hamas (ma chi sono allora gli Hamasniks se non dei palestinesi?) come della sua propria politica. E’ una vittima, qualunque cosa faccia.

La seconda sostituzione forzata riguarda “le ragazze”. Nel caso di Hamas, Plantu distingue il genere mentre, sotto lo stivale del soldato israeliano, “le ragazze” diventano solo palestinesi (“ragazze e ragazzi?), non più poste in relazione alla loro scuola, ma al loro paese (Palestina) che un artificiale Israele (cartello messo di traverso) ricopre e occulta (“Palestina” e non “territori occupati”). Lasciando da parte che è la stessa legittimità dello Stato di Israele ad essere messa in dubbio (un cartello improvvisato  è apposto su un edificio solido chiamato Palestina), troviamo che la discriminazione di genere praticata a scuola, è paragonata a una presunta discriminazione etnica, nazionale, politica. Quest’ultima è così surrettiziamente messa in parallelo con una discriminazione nel genere umano (uomini e donne), cosa che l’aggrava ulteriormente (e induce l’idea di apartheid …). “Le ragazze” perseguitate infatti,  non sono identificate  nazionalmente.

Si noti la simmetria tra i due personaggi escludenti: stessi gesti, ma l’israeliano è un soldato e l’Hamasnik un “uomo” (religioso, innocente, non armato) in djellaba. Eppure indossa la bandiera verde dei martiri, mentre il soldato indossa una stella di David evidente (il che ovviamente non esiste tra le abitudini dei soldati israeliani). Induce quindi l’immagine di ebrei in generale e non “solo” di israeliani? La portata del disegno sarebbe ancora più grave.

Qui le famose “scarpette rosse” testimonianza della Shoah, sono paragonate a quelle di un bimbo di Gaza

Plantu avrebbe potuto opporre il fatto  che se c’è un paese nel quale la discriminazione di genere è al minimo, quello è Israele, mentre non è il caso né nei territori “governati” dall’OLP, né in quelli di Hamas. Avrebbe potuto  ricordare che i cristiani arabi soggetti all’Autorità palestinese e a Gaza stanno fuggendo in massa dai luoghi nei quali sono perseguitati, mentre la comunità cristiana è fiorente in Israele. Avrebbe potuto opporre alla persecuzione dei cristiani il fatto che gli arabi israeliani sono cittadini a pieno titolo (a parte l’esenzione dal servizio militare), che hanno diversi partiti (compresi quelli islamici) rappresentati alla Knesset , un giudice della Corte Suprema, il proprio sistema scolastico nella loro lingua, seconda lingua nazionale, presente in tutti i segnali … probabilmente è chiedere troppo?

Esempio di vignetta antisemita: il “nazista” soldato israeliano, il banchiere americano, uccidono Gaza, mentre il mondo e i paesi arabi stanno a guardare

Aggiungiamo un altro elemento appena percettibile, un “lapsus” del vignettista, direbbe uno psico-analista. Sopra la scritta “Palestina”, c’è una sorta di bassa torre, un edificio; se si tiene conto della struttura cosi’ creata: l’edificio orizzontale con la scritta “Palestina”  sul muro; la piccola torre verticale, si ottiene la sagoma di una croce. La scritta “Israele”, sul cartello, ricorda la INRI sulla croce della crocifissione.

In conclusione, la condanna apparente di Hamas ne maschera in realtà una molto più potente a Israele, suggerendo l’idea che non si tratta solo di un potere razzista e discriminatorio, che esclude solo i ragazzi e le ragazze in particolare, ma un intero popolo, immagine del genere umano. Il disegnatore cristallizza la violenza di Hamas, in qualche modo reso innocente, su Israele, mentre i palestinesi sono doppiamente innocenti: sono solo  bambini e anche l’Hamasnik è disarmato! Solo Israele – la Stella di David – è vestito da soldato.

Esempio di vignetta antisemita: gli ebrei comandano sui media

La trasformazione della realtà è tuttavia, per lo più retorica. Come prova, sempre su Le Monde, un articolo datato 22 marzo 2013, un capolavoro nel suo genere. Presentando un evento come obiettivo, la giornalista Elise Vincent o il suo editore, lo trasforma in uno d’impatto. L’evento, il fatto,  è che gli atti antisemiti sono aumentati del 58% nel 2012, mentre il titolo dell’articolo, quello che il lettore frettoloso ricorderà, annuncia: “Gli atti anti-musulmani in aumento per il terzo anno di fila.” Apprendiamo, tuttavia, nel testo, come l’aumento degli atti anti-islamici sia del 30%. Solo un piccolo sottotitolo evoca il significativo 58% ma – attenzione! – “Secondo la Commissione per i diritti umani”, cioè implicitamente “con tutte le riserve possibili”, mentre lo status anti-musulmano, quello, è realtà, senza riserve. Scopriamo, inoltre, leggendo questo articolo, l’affermazione  piuttosto sorprendente del presidente della Commissione dei diritti dell’uomo, che definisce le cause dell’ antisemitismo  “essenzialmente congiunturali” (da 12 anni!) Mentre gli atti anti-islamici sono “strutturali”. L’unico cambiamento rispetto a 10 anni fa è che mentre allora era colpa di Israele, ora è colpa della Francia, a causa di Merah, un francese …

Articolo originale QUI

Pallywood, mon amour!

Il termine “Pallywood” si riferisce alle costruzioni giornalistiche, allestite da giornalisti arabi e occidentali, finalizzate a presentare i palestinesi come vittime inermi dell’aggressione israeliana. In alcuni casi Pallywood mette in scena veri e propri stage cinematografici nei quali i “fatti” sono inventati di sana pianta, secondo un copione accuratamente predisposto. Cio’ è possibile (o lo è stato finora) per la credulità della stampa occidentale e per il suo desiderio  di presentare  immagini capaci di rafforzare il mito del palestinese/ David che si batte valorosamente contro la sopraffazione di Golia/ israeliano.

Con Pallywood gli standard giornalistici sono caduti a livelli da “spaghetti western” e le messe in scena sono assurte al rango di  “eventi reali.”

1982: l’invasione del Libano

I primi chiari segnali di una emergente “industria Pallywood” risalgono all’invasione del Libano, del 1982. Lì, per la prima volta, i media sembrarono abbracciare quell’atteggiamento apertamente ostile nei confronti di Israele che porto’ Norman Podhoretz a scrivere un articolo molto discusso, dal titolo “J’Accuse”, nel quale accusava i principali media di ” antisemitismo” (su Commentary, febbraio 1983).

Podhoretz denuncio’ che: 

– Utilizzando il fratello di Arafat, Fathi Arafat, capo della Mezzaluna Rossa Palestinese, le fonti palestinesi dichiararono 10.000 morti e 600.000 profughi causati dall’attacco israeliano. Senza verificare la  notizia (all’epoca nel sud del Libano vivevano 300.000 persone), i mezzi di comunicazione ripetettero costantemente questi dati, fino a che divennero universalmente accettati.

– I giornalisti paragonarono l’assedio di Beirut a quello nazista di Varsavia. Difficile trovare un paragone più inappropriato, ma l’analogia tra israeliani e nazisti sembro’ avere un richiamo quasi irresistibile per alcuni giornalisti. Tra i più aggressivi, Peter Jennings.

– Furono utilizzate immagini chiaramente false, atte a screditare l’esercito israeliano, comprese quelle delle zone devastate dalla guerra civile tra palestinesi e libanesi, bambini morti che non erano morti, ecc (pp. 353-389).

– I massacri di Sabra e Shatila furono riportati in modo che nell’opinione pubblica si formasse la convinzione che fossero stati i soldati israeliani ad aver massacrato i profughi palestinesi, omettendo di informare in merito alle motivazioni della Falange maronita, responsabile dell’attacco.

Tutti conoscono la storia di Sabra e Shatila, ma solo di recente si è cominciato a sentir parlare del Darfur. Il netto contrasto tra le centinaia di morti di Sabra e Shatila e i più di diecimila di Hama, città nel centro della Siria, lo stesso anno, illustra quanto la propensione dei media sia di  accentrare l’attenzione sui misfatti, non importa se veri o presunti, di Israele e quanto sia forte il potere di intimidazione che di fatto impedisce ai giornalisti di accedere e riportare notizie in merito ai crimini arabi (v. Friedman, da Beirut a Gerusalemme, cap. 4.)

– La riluttanza della stampa – in particolare da parte dei giornalisti “residenti” a rivelare il grado di brutalità dell’OLP come “Stato nello Stato” nel sud del Libano (vedi pp 219-278).

I palestinesi davanti all’entusiasmo della stampa occidentale nel riferire il peggio degli israeliani per evitare di informare in merito al peggio dei palestinesi, alla suscettibilità all’intimidazione e all’assassinio di giornalisti invisi all’OLP, agli standard molto scadenti nel vagliare e verificare le fonti e i fatti,  compresero chiaramente di avere un valido alleato nei media occidentali e nei giornalisti installati presso l’hotel Commodore – (Chafets, Double Vision, capitolo 6.).

Avvelenamento di Studentesse palestinesi, Jenin (Cisgiordania), marzo, 1983

Un anno dopo la debacle dei media libanesi, Israele fu fatto oggetto di un falso premeditato, diffuso poi ampiamente  : un certo numero di ragazze palestinesi di una  scuola media dichiararono di essere state avvelenate da “gli israeliani.” La storia divento’ subito uno scandalo internazionale. Ogni Paese invento’ una tale varietà di dettagli che la storia fini’ per somigliare ad una versione di Rashoman. Nessuno, tuttavia, mise in dubbio la veridicità dell’avvelenamento, né le accuse a Israele. Solo dopo una lunga indagine risulto’ che non c’erano ragazze avvelenate, e che i miliziani dell’OLP avevano incoraggiato e intimidito le ragazze ed i funzionari dell’ospedale affinché confermassero la storia.

Dal punto di vista della copertura mediatica si rivelarono alcune particolarità:

– La stampa israeliana prese sul serio le accuse e solo dopo un esame medico concluse trattarsi di falsi.

– La stampa palestinese e araba dette subito per scontato che la storia fosse vera e la uso’ per incitare all’odio e diffondere la paura degli israeliani. Nonostante la mole delle contro-prove non ci fu nessun  cambiamento nella copertura.

– La stampa occidentale accolse le accuse come probabili, se non vere (e gli europei furono molto più aggressivi rispetto agli americani), e quando le prove della messa in scena emersero,  cessarono di riferire in merito all’incidente, lasciando gli israeliani tra diffamazione e silenzio.

Le accuse di avvelenamento costituirono il primo chiaro caso di Pallywood: l’atrocità messa in scena dagli attivisti palestinesi per raffigurare gli israeliani avvelenatori di innocenti,  immediatamente sottoscritta da stampa locale e straniera.

“Questa è la storia della manifestazione straordinaria di una moderna “calunnia del sangue”  contro gli ebrei e Israele, che ha coinvolto non solo arabi e musulmani, ma anche i media europei e le organizzazioni del mondo….”  Poison, Raphael Israeli

La prima Intifada, 1987-1991

Durante la prima Intifada, i media trasformarono la Cisgiordania in una frenesia di brutalità israeliana in contrasto a quella molto spesso definita  “resistenza non-violenta”. Per la prima volta si evidenzio’ una collaborazione aperta tra cameramen, informati in precedenza del verificarsi dei fatti o che pagavano per le sequenze d’azione che avrebbero poi potuto fotografare.

Le autorità israeliane rese insicure dall’ostilità della stampa ostile e incerte su come fermare la violenza, chiusero, in certi momenti, i territori alla stampa estera. Spesso, mentre gli inviati delle testate estere cenavano o consumavano  i loro drinks all’Hotel American Colony a Gerusalemme Est, le telecamere palestinesi preparavano per loro filmati d’azione. Fu probabilmente la prima volta che i palestinesi ebbero a disposizione le apparecchiature occidentali e furono in grado di alimentare le immagini dei notiziari delle agenzie con le loro “scene di strada” .

In tempi recenti un numero crescente di articoli web e di giornale hanno descritto e denunciato la manipolazione dei media da parte dei palestinesi e il pregiudizio anti-Israele di molti media occidentali. Il regista palestinese, produttore di “Jenin, Jenin” ha ammesso, ad esempio, di aver falsificato delle scene del suo documentario, allo scopo di demonizzare Israele.

Jeff Helmreich ha pubblicato un modello di violazione della deontologia giornalistica da parte dei media che trattano del conflitto.

– In un’intervista multimediale l’analista David Bedein ha sostenuto che negli ultimi venti anni i palestinesi hanno battuto gli israeliani nella propaganda a uso dei media del mondo.

Josh Muravchik ha denunciato il pessimo lavoro dei media occidentali nell’informare in merito all’intifada e il meccanismo nel riportare il conflitto in modo da avvantaggiare le società autoritarie.

Stephanie Gutmann, in “The Other War: israeliani, palestinesi e la lotta per la supremazia dei Media”, sostiene che Israele si è dibattuto in un campo di battaglia fatto di pagine editoriali, schermi televisivi e Internet

La seconda  Intifada “Al Aqsa”, ottobre 2000-2004

Lo scoppio della seconda tornata di violenze palestinesi contro Israele prese avvio, ironia della sorte, a seguito dei negoziati di pace nei quali, secondo le fonti più accreditate, gli israeliani offrirono la maggior parte della Cisgiordania e tutta la Striscia di Gaza (compresa l’evacuazione degli insediamenti) in cambio della pace. Per un breve momento Barak e gli israeliani godettero di qualche simpatia sulla scena mondiale e Arafat si trovo’ in un raro stato di disapprovazione. Ma una volta che la violenza scoppio’ e Israele poté essere incolpato e, in particolare, dopo che le immagini di Muhamed al Durah (la più gigantesca frode mai messa in atto) furono  mostrate dalle televisioni di tutto il mondo, l’opinione pubblica si sposto’ drammaticamente.

Forse il modo migliore per capire come Pallywood fu in grado di avere tanto successo in quella fase è quello di esaminare cio’ che successe il 29 settembre 2000, il giorno dopo che Sharon visito’ il Monte del Tempio / Haram al Sharif. Quel giorno, le agenzie di stampa riferirono di violenti scontri tra le truppe israeliane e i palestinesi infuriati per la visita. L’Amministrazione palestinese pubblico’ la fotografia di un uomo giovane, sanguinante e in ginocchio. Di fronte a lui un israeliano che brandiva un bastone. Non ci voleva un esperto per capire che qualcosa non andava. Non ci sono stazioni di rifornimento da nessuna parte vicino al Monte del Tempio, quindi la collocazione era chiaramente falsa.

Ma non si trattava di semplice collocazione errata del fatto e uno sguardo più attento suggeri’ che il soldato israeliano sembrava urlare a qualcuno che si trovasse oltre il ferito. L’uomo nella foto non era un palestinese, ma un Ebreo americano, un seminarista, che fu trascinato fuori dalla sua auto da una folla inferocita e quasi picchiato e pugnalato a morte. (Trascorse mesi in ospedale per riprendersi.) Era Tuvya Grossman. Il poliziotto israeliano non lo stava picchiando, ma proteggendo dalla folla. Il New York Times, senza controllare i fatti, pubblico’ l’immagine con la falsa didascalia.

Cio’ illustra benissimo il problema delle aspettative paradigmatiche che influenzano ciò che vediamo e come lo assimiliamo. La didascalia riscrive la storia: aggressivo israeliano attacca brutalmente disarmato palestinese nel terzo luogo santo all’Islam.

Esiste un equivalente israeliano di Pallywood?

“Anche gli israeliani diffondono notizie costruite?” I Media di ogni paese giocano su un margine di giudizio che renda le notizie presentabili al pubblico. Ci sono analisti che sostengono che Israele è di gran lunga superiore nel manipolare i mezzi di comunicazione: – Delinda C. Hanley, News Editor del Rapporto Washington  per gli affari in ​​Medio Oriente, sostiene che Israele  è riuscito a dare l’immagine, nei media americani, delle vittime (i palestinesi) come aggressori.

Il “morto resuscitato”

– Alison Weir, fondatrice di If American Knew,  sostiene che i media occidentali, in particolare americani, sono stati costantemente pro-israeliani nella copertura del conflitto. Lei lo chiama “un modello pervasivo di distorsione.”

– Daniel Dor, della Tel Aviv University, in “Intifada Head the Headlines,” (2004) sostiene che la stampa israeliana si è allineata con la propaganda dell’establishment israeliano. In tempi di conflitto la stampa nelle democrazie liberali svolge un “ruolo non del tutto dissimile da quello della stampa in paesi non democratici.” (Pagina 168)

Ma le differenze sono così grandi da richiedere una particolare attenzione a questo problema: – Gli israeliani non fabbricano immagini di feriti; al contrario, tabù profondi impediscono di pubblicare le immagini di cadaveri. – Gli israeliani non mostrano costantemente immagini destinate a suscitare l’odio, a differenza dei palestinesi. Basta confrontare la copertura data in Israele per le immagini orrende del linciaggio di Ramallah 12 OTTOBRE 2000 con la ripetizione costante in TV e nei programmi scolastici palestinesi delle riprese e delle ricostruzioni della storia di Muhamed Al Durah, due settimane prima.

– La stampa israeliana è una delle più autocritiche nel mondo. Errori raramente passano inosservati o taciuti. Quando l’esercito israeliano ha accusato le Nazioni Unite di usare le loro ambulanze per spostare missili Qassam e non è riuscito a fornirne la prova, la stampa israeliana ha denunciato l’errore bruscamente: “Israele si è comportato con fretta sconsiderata e ha ferito con le sue pretese di superiorità , perdendo in  credibilità. ”

Non vi è alcun equivalente nella stampa palestinese  di giornalisti come Gideon Levy e Amirah Hass, di Ha-Aretz . Elementi di auto-critica sono, per la maggior parte dei casi, assenti nei media arabi.

– Anche le organizzazioni denunciate dall’altra parte come “di propaganda”, ad esempio Palestinian Media Watch e MEMRI, sono scrupolosamente oneste nelle traduzioni del materiale che pubblicano dal mondo arabo  e prestano attenzione a non pubblicare solo i fatti negativi ma anche quelli positivi.

– Per rendere il confronto “equilibrato”  manca una distinzione importante tra le critiche ad una stampa libera in Israele e  le intimidazioni e i contenuti di propaganda della stampa araba diffusa in società autoritarie. Se non si riesce a capire queste differenze, non si può comprendere il valore e l’importanza dell’ auto-critica della stampa libera  che sostiene la società civile. La tolleranza per la critica e per i punti di vista diversi segna l’impegno verso la società civile.

PERCHE’ E’ IMPORTANTE denunciare Pallywood?

– Pallywood distorce l’opinione pubblica occidentale e del Medio Oriente .

– Aggrava la narrativa vittima  / carnefice, dominante nell’Europa occidentale e nei media Medio Orientali, che prolunga il conflitto

– Perpetua la narrativa (palestinese) Davide Vs Golia (Israele) .

– Contribuisce alla demonizzazione di Israele / aumento di antisemitismo

– Con il suo drammaticismo, Pallywood porta alla romanticizzazione occidentale della lotta palestinese e alla giustificazione dei metodi più atroci per raggiungere i loro scopi.

“Sono belle, altamente qualificate e mortali. Sono le donne kamikaze. “Rivista New Idea  Australia, 7 aprile 2003.

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Chaim Herzog e il suo discorso all’ONU

10 novembre 1975

In merito all’adozione della risoluzione ONU 3379 che includeva l’equazione Sionismo=razzismo, l’Ambasciatore d’Israele Herzog insorse per denunciare la bassezza della risoluzione stessa e di coloro che si accingevano a votarne l’adozione. Nell’occasione tenne un discorso memorabile sull’origine e il significato del Sionismo e sul suo legame inscindibile col Popolo Ebraico, che in quel momento egli rappresentava, di fronte ad un consesso di nazioni apertamente ostili. Questo discorso figura nella Storia, fianco a fianco con i più famosi discorsi tenuti in pubblico per perorare la causa dei più basilari diritti umani, come il celebre “I have a dream” di M. Luther King che di Israele in altra occasione scrisse:

“I nostri fratelli in Africa hanno mendicato, implorato, supplicato, chiedendo che venisse riconosciuto ed attuato il nostro congenito diritto a vivere in pace sotto la nostra sovranità e nel nostro Paese. (…) Come dovrebbe essere facile, per chiunque abbia a cuore questo inalienabile diritto umano, comprendere e sostenere il diritto del Popolo Ebraico a vivere nell’antica terra d’Israele. Gli uomini di buona volontà esultano nel vedere la promessa di Dio realizzata, nel vedere il suo popolo che torna gioiosamente a ricostruire la sua terra devastata. QUESTO E’ IL SIONISMO, niente di più e niente di meno.”

E’ simbolico che questo dibattito, che potrebbe rivelarsi un punto di svolta nelle vicende delle Nazioni Unite e un fattore determinante per la possibile esistenza futura di questa organizzazione, debba avvenire il 10 novembre. Questa notte, 37 anni fa, è passata alla storia come Kristallnacht, o la Notte dei Cristalli. In quella notte del 10 novembre 1938, gli assalitori nazisti di Hitler lanciarono un attacco coordinato alla comunità ebraica in Germania, bruciarono le sinagoghe in tutte le città e si accesero roghi per le strade con i Libri Sacri, i rotoli della Legge Sacra e la Bibbia.

In quella notte le case ebraiche furono attaccate e i capi famiglia portati via, di questi non molti ritornarono. In quella notte le vetrine di tutti i negozi appartenenti agli ebrei furono distrutte e coprirono le strade delle città tedesche con uno strato di vetri rotti che si ridussero in milioni di cristalli, dando così il nome a quella notte: Kristallnacht, la Notte dei Cristalli. Quella notte ha portato infine ai forni crematori e alle camere a gas, ad Auschwitz, Birkenau, Dachau, Buchenwald, Theresienstadt, e altri. Quella notte ha portato all’olocausto più terrificante della storia dell’uomo.

E’ davvero giusto che questo progetto (la risoluzione in discussione n.d.r.), concepito nel desiderio di deviare il Medio Oriente dalle sue mosse verso la pace, e nato da una profonda sensazione pervasiva di antisemitismo, debba essere posto in discussione proprio in questo giorno che ricorda uno dei giorni più tragici di uno dei periodi più bui della nostra storia? E’ opportuno che le Nazioni Unite, che hanno iniziato la loro vita come alleanza anti-nazista, debbano, 30 anni dopo, ritrovarsi a diventare il centro mondiale dell’anti-semitismo? Hitler si sarebbe sentito a casa in diverse occasioni durante l’anno passato, ascoltando il procedimento dei lavori in questa forma e, soprattutto, al procedimento dei lavori nel corso del dibattito sul Sionismo.

È un’osservazione che fa riflettere e considerare fino a che punto questo Organismo è stato trascinato verso il basso, se siamo costretti oggi a contemplare un attacco contro il Sionismo. Poiché questo attacco costituisce non solo un attacco antisemita della più ripugnante sorta, ma anche un attacco in questo organismo mondiale contro l’ebraismo, una delle più antiche religioni nel mondo, una religione che ha dato al mondo i valori umani della Bibbia, una religione, da cui due altre grandi religioni, Cristianesimo e Islam, sorsero – una grande religione, consolidata, che ha dato al mondo la Bibbia con i suoi dieci comandamenti, i grandi profeti del passato, Mosè, Isaia, Amos, i grandi pensatori della storia, Maimonide, Spinoza, Marx, Einstein, molti dei maestri delle arti, e un’alta percentuale di premi Nobel del mondo, nelle scienze, le arti e le discipline umanistiche, come nessun altro popolo sulla terra.

Si può solo riflettere e meravigliarsi di fronte alla prospettiva dei Paesi che si considerano parte del mondo civilizzato e che si stanno unendo a questo primo attacco organizzato contro una religione stabilita fin dal Medioevo. Sì, a queste profondità, indietro fino al Medioevo, veniamo trascinati oggi da coloro che sostengono questa proposta di risoluzione.

Il progetto di risoluzione, prima della Terza Commissione era in origine una risoluzione che condannava il razzismo e il colonialismo, un argomento sul quale il consenso avrebbe potuto essere raggiunto, un consenso che è di grande importanza per tutti noi e per i nostri colleghi Africani in particolare. Tuttavia, invece di permettere che ciò accadesse, un gruppo di paesi, inebriato dalla sensazione di potere data alla maggioranza automatica, e senza tener conto dell’importanza di raggiungere un consenso su questo tema, ha pilotato la Commissione in modo sprezzante, con l’uso appunto della maggioranza automatica, fino a imporre il Sionismo come soggetto in discussione.

Non vengo a questa tribuna per difendere i valori morali e storici del popolo ebraico. Non hanno bisogno di essere difesi. Parlano da sé. Hanno dato agli uomini molto di ciò che è grande ed eterno. Hanno fatto per lo spirito dell’uomo più di quanto possa essere facilmente apprezzato in un forum come questo. Vengo qui a denunciare i due grandi mali che minacciano la società in generale e una società delle nazioni in particolare. Questi due mali sono l’odio e l’ignoranza. Questi due mali sono la forza motrice dietro i fautori di questa proposta di risoluzione e dei loro sostenitori. Questi due mali caratterizzano coloro che vorrebbero trascinare questa Organizzazione Mondiale, la cui idea fu concepita dai profeti di Israele, alle profondità a cui è stata trascinata oggi.

La chiave per comprendere il Sionismo sta nel suo nome. Nella Bibbia, la più occidentale delle due colline di Gerusalemme antica era chiamata Sion. Era il X secolo AC. Di fatto, il nome “Sion” appare 152 volte nell’Antico Testamento riferimento a Gerusalemme. Il nome è prevalentemente una denominazione poetica e profetica. Le qualità religiose ed emozionali del nome derivano dall’importanza di Gerusalemme come la Città Reale e la città del Tempio. “Monte Sion” è il luogo dove Dio abita, secondo la Bibbia.

Gerusalemme o Sion, è un luogo dove il Signore è il Re secondo Isaia, e dove ha installato il suo Re David, come citato nei Salmi. Il re Davide fece di Gerusalemme la capitale di Israele quasi 3000 anni fa, e Gerusalemme è rimasta la capitale da allora. Nel corso dei secoli il termine “Sion” è cresciuto e si è espanso a significare tutto Israele. Gli Israeliti in esilio non potevano dimenticare Sion. Il salmista ebraico, seduto presso le acque di Babilonia giurò: “Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra” (Salmo 137, n.d.r.). Questo giuramento è stato ripetuto per migliaia di anni da parte degli ebrei di tutto il mondo. Si tratta di un giuramento che è stato fatto oltre 700 anni prima dell’avvento del Cristianesimo, e più di 1200 anni prima dell’avvento dell’Islam.

Alla luce di tutte queste connotazioni, Sion è venuto a significare la patria ebraica, simbolo dell’ebraismo, di aspirazioni nazionali ebraiche. Ogni Ebreo, mentre pregava il suo Dio, ovunque si trovasse nel mondo, si rivolgeva verso Gerusalemme. Queste preghiere hanno espresso per oltre 2000 anni di esilio, il desiderio del popolo ebraico di tornare alla sua antica patria, Israele. In realtà, una presenza continua ebraica, in numero maggiore o minore, è stata mantenuta nel paese nel corso dei secoli. Il Sionismo è il nome del Movimento Nazionale di Liberazione del Popolo Ebraico ed è l’espressione moderna del patrimonio ebraico. L’ideale sionista, come indicato nella Bibbia, è stato, ed è, parte integrante della religione ebraica.

Il Sionismo sta al popolo ebraico, come il movimento di liberazione dell’Africa e dell’Asia sono stati ai loro popoli. Il Sionismo è uno dei più emozionanti e costruttivi movimenti nazionali nella storia umana. Storicamente, si basa su una connessione univoca e ininterrotta, che si estende per circa 4.000 anni, tra il Popolo del Libro e la Terra della Bibbia. In tempi moderni, nel tardo Ottocento, spinto dalle forze gemelle della persecuzione antisemita e dal nazionalismo, il popolo ebraico ha organizzato il Movimento Sionista, al fine di trasformare il suo sogno in realtà. Il Sionismo, come movimento politico, ha rappresentato la rivolta di una nazione oppressa contro i saccheggi e la discriminazione e l’oppressione dei malvagi dei paesi in cui l’antisemitismo fiorì.

Abba Kovner (a sinistra), uno dei leader della resistenza ebraica a Vilnius,1944 

Non è di certo una coincidenza, e non sorprende affatto, che gli sponsor e sostenitori di questo progetto di risoluzione includano paesi che sono stati e sono colpevoli ancor oggi del crimine orribile di antisemitismo e di discriminazione. Il supporto agli obiettivi del Sionismo è stato scritto nel Mandato della Lega delle Nazioni per la Palestina, ed è stato nuovamente approvato dalle Nazioni Unite nel 1947, quando l’Assemblea generale ha votato con una maggioranza schiacciante per la restaurazione dell’indipendenza ebraica nella nostra antica terra.

Il ristabilimento dell’indipendenza ebraica in Israele, dopo secoli di lotta per superare la conquista estera e l’esilio, è una rivendicazione dei concetti fondamentali di parità delle nazioni e di autodeterminazione. Mettere in discussione il diritto del popolo ebraico all’esistenza nazionale e la sua libertà, non è solo di negare al popolo ebraico il diritto accordato a ogni altro popolo in questo mondo, ma è anche negare i precetti centrali delle Nazioni Unite.

Perché il sionismo non è altro – e niente di meno – che il senso di origine e destinazione verso la terra del Popolo Ebraico, la terra eternamente legata al suo nome. E ‘anche lo strumento con cui il popolo ebraico chiede una realizzazione autentica di se stesso.

La resistenza nei ghetti: la Brigata Partigiana “Lenin”

E il dramma si compie nella regione in cui la nazione araba ha realizzato la sua sovranità in 20 Stati, che contano un centinaio di milioni di persone in quattro milioni e mezzo di chilometri quadrati, con grandi risorse. Il problema quindi non è se il mondo verrà a patti con il nazionalismo arabo. La domanda è: fino a che punto il nazionalismo arabo, con la sua sovrabbondanza prodigiosa di vantaggio, ricchezza e opportunità, verrà a patti con i modesti ma uguali diritti di un altro Paese mediorientale a proseguire la sua vita in sicurezza e pace?

Le feroci diatribe sul Sionismo espresso qui dai rappresentanti arabi, possono dare a questa Assemblea l’impressione sbagliata che mentre il resto del mondo ha sostenuto il Movimento di Liberazione Nazionale Ebraico, il mondo arabo sia sempre stato ostile al Sionismo. Ma non è affatto così.

I leader arabi, al corrente dei diritti del popolo ebraico, hanno avallato pienamente le virtù del Sionismo. Lo Sceriffo Hussein, il leader del mondo arabo durante la Prima Guerra Mondiale, ha accolto il ritorno degli ebrei in Palestina. Suo figlio, l’Emiro Feisal, che ha rappresentato il mondo arabo alla Conferenza di Pace di Parigi ha avuto questo da dire circa il sionismo, il 3 marzo 1919:

“Noi arabi, in particolare i più colti fra noi, guardiamo con profonda simpatia al movimento Sionista… noi auguriamo agli Ebrei un cordiale bentornati a casa… Stiamo lavorando insieme per un Vicino Oriente riformato e rinnovato, e i nostri due movimenti si completano l’un l’altro. Il movimento è nazionale e non imperialista. C’è spazio in Siria per entrambi. Anzi, penso che nessuno dei due possa raggiungere un pieno successo senza l’altro.”

L’Emiro Feisal (Faysal ibn al-Husayn ibn ʿAlī) primo re dell’Iraq e re della Siria, fu animatore della Rivolta Araba contro gli Ottomani.

E’ forse pertinente a questo punto ricordare, che nel 1947, quando la questione della Palestina è stata oggetto di dibattito in seno alle Nazioni Unite, l’Unione Sovietica ha sostenuto con forza la lotta di indipendenza ebraica. E’ particolarmente importante ricordare alcune delle osservazioni di Mr. Andrei Gromyko il 14 maggio 1947, un anno prima della nostra indipendenza:

“Come sappiamo, le aspirazioni di una parte considerevole del Popolo Ebraico sono collegate con il problema della Palestina e della sua futura amministrazione. Questo fatto non richiede grandi prove… Durante l’ultima guerra, il Popolo Ebraico ha subito dolore e sofferenze eccezionali. Senza alcuna esagerazione, questo dolore e questa sofferenza sono indescrivibili. E’ difficile esprimerli in aride statistiche sulle vittime delle aggressori fasciste. Gli Ebrei nei territori dove gli hitleriani imperavano, sono stati sottoposti al quasi completo annientamento fisico. Il numero totale degli ebrei che morirono per mano del boia nazista è stimato a circa sei milioni… “

“Le Nazioni Unite non possono e non devono considerare questa situazione con indifferenza, poiché questo sarebbe incompatibile con gli alti principi proclamati nella sua Carta, che prevede la difesa dei Diritti Umani, a prescindere da razza, religione o sesso…”

“Il fatto che nessuno Stato dell’Europa occidentale sia stato in grado di assicurare la difesa dei diritti elementari del Popolo Ebraico e di salvaguardarlo contro la violenza dei carnefici fascisti, spiega le aspirazioni degli ebrei a stabilire il proprio Stato. Sarebbe ingiusto non tenerne conto e negare il diritto del Popolo Ebraico a realizzare questa aspirazione.”

Queste sono le parole del signor Andrei Gromyko alla sessione dell’Assemblea Generale il 14 maggio 1947. Quanto è triste vedere qui un gruppo di nazioni, molte delle quali solo di recente si sono liberate dal dominio coloniale, deridere uno dei movimenti di liberazione più nobili di questo secolo, un movimento che non solo ha dato un esempio di incoraggiamento e di determinazione alle persone che lottano per l’indipendenza, ma che ha anche attivamente aiutato molti di loro, durante il periodo di preparazione per la loro indipendenza, o subito dopo. Qui avete un movimento, incarnazione di un unico spirito pionieristico, della dignità del lavoro e di sostegno ai valori umani, un movimento che ha presentato al mondo un esempio di uguaglianza sociale e aperta democrazia, che viene associato in questa risoluzione con ripugnanti concetti politici.

Noi, in Israele, abbiamo cercato di creare una società che si sforza di attuare gli ideali più alti di società -politica, sociale e culturale – per tutti gli abitanti di Israele, a prescindere dal credo religioso, razza o sesso. Mostratemi un’altra società così pluralistica nella quale, nonostante tutti i problemi difficili tra i quali viviamo, Ebrei e Arabi convivono con un tale grado di armonia, in cui sono osservati la dignità e i diritti dell’uomo di fronte alla legge, in cui la condanna a morte non viene applicata, in cui la libertà di parola, di movimento, di pensiero, di espressione sono garantite, in cui anche i movimenti che si oppongono ai nostri obiettivi nazionali, sono rappresentati nel nostro Parlamento.

I delegati arabi parlano di razzismo. E non ci sta nella loro bocca. Che cosa è successo agli 800.000 Ebrei che hanno vissuto per oltre 2.000 anni nei paesi arabi, che hanno costituito alcune delle più antiche comunità molto tempo prima dell’avvento dell’Islam? Dove sono queste comunità? Che cosa è accaduto alla gente, cosa è successo alle loro proprietà? Gli Ebrei erano una volta una delle comunità più importanti nei paesi del Medio Oriente, i leader del pensiero, del commercio, della scienza medica. Dove sono nella società araba di oggi?

Osate parlare di razzismo quando posso indicare con orgoglio i Ministri arabi che hanno prestato servizio nel mio Governo, il Vice Presidente arabo del mio Parlamento, i funzionari arabi e gli uomini che servono di loro spontanea volontà nelle nostre forze armate, polizia di frontiera e, spesso, comandano le truppe ebraiche; le centinaia di migliaia di arabi provenienti da tutto il Medio Oriente che affollano le città di Israele ogni anno, e migliaia di arabi provenienti da tutto il Medio Oriente in arrivo per cure mediche in Israele, la coesistenza pacifica che si è sviluppata, al punto che l’arabo è lingua ufficiale in Israele al pari con l’ebraico; il fatto che sia più naturale per un arabo servire in carica pubblica in Israele, in quanto è assurdo pensare ad un Ebreo che serve in un qualsiasi pubblico ufficio in un paese arabo, sempre che vengano ammessi in questi paesi. E’ questo il razzismo? No, non lo è. Questo è il Sionismo.

Il nostro è un tentativo di costruire una società, seppure imperfetta – e quale società può dirsi perfetta?- in cui le visioni dei profeti di Israele siano realizzate. So che abbiamo dei problemi. So che molti non sono d’accordo con le politiche del nostro governo. Anche molti in Israele discordano di volta in volta con le politiche del Governo, e sono liberi di farlo, perché il Sionismo ha creato il primo e unico vero e proprio Stato democratico in una parte del mondo che non conosceva realmente la democrazia e la libertà di parola.

Questa risoluzione maligna, progettata per distrarci dal suo vero scopo, fa parte di un pericoloso idioma antisemita che viene insinuato in ogni dibattito pubblico da parte di coloro che hanno giurato di bloccare il passaggio verso l’accoglienza e, infine, verso la pace in Medio Oriente. Questo, insieme con mosse simili, è stato progettato per sabotare gli sforzi della Conferenza di Ginevra per la pace in Medio Oriente. Stiamo vedendo qui oggi nient’altro che un’ulteriore manifestazione dell’amaro odio antisemita, anti-ebraico che anima la società araba.

Chi avrebbe mai creduto che nell’anno 1975 le falsità maligne dei Protocolli dei Savi di Sion, sarebbero state distribuite ufficialmente dai governi arabi? Chi avrebbe mai creduto che avremmo oggi contemplato una società araba che insegna il più vile odio anti-ebraico negli asili? Chi avrebbe mai creduto che un capo di Stato arabo si sentisse obbligato a praticare pubblicamente l’antisemitismo della più bassa lega quando visita una nazione amica?

L’arabo è la seconda lingua ufficiale i Israele

Siamo attaccati da una società che è motivata dalla forma più estrema di razzismo conosciuta nel mondo di oggi. Questo è il razzismo che è stato espresso in modo sintetico nelle parole del leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Yasser Arafat, nel suo discorso di apertura in un simposio a Tripoli, in Libia, cito: “Non ci sarà nessuna presenza nella regione eccetto per la presenza araba”. In altre parole, in Medio Oriente, dall’Oceano Atlantico al Golfo Persico, una sola presenza è permessa, e cioè la presenza araba. Nessun altro popolo, indipendentemente da quanto sono profonde le sue radici nella regione, deve essere ammesso a godere del suo diritto all’auto-determinazione. Guardate il tragico destino dei Curdi in Iraq. Guardate cosa è successo alla popolazione nera nel sud del Sudan. Guardate il pericolo terribile, in cui un’intera comunità di Cristiani si trova in Libano. Guardate la politica dichiarata dell’OLP, che nel suo Patto della Palestina prevede la distruzione dello Stato di Israele, che nega qualsiasi forma di compromesso sulla questione palestinese, e che, nelle parole del suo rappresentante solo l’altro giorno in questo stesso edificio, considera Tel Aviv un “territorio occupato”.

Guardate tutto questo e vedrete davanti a voi la causa principale della risoluzione perniciosa portata dinanzi a questa Assemblea. Vedrete i mali gemelli di questo mondo, al lavoro: l’odio cieco dei fautori arabi della presente risoluzione, e l’ignoranza abissale e la malvagità di coloro che li sostengono. La questione prima di questa Assemblea non è Israele e non è il Sionismo. Il problema è il destino di questa Organizzazione. Concepita nello spirito dei profeti d’Israele, nata da una alleanza anti-nazista, dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, è degenerata in un Forum che è stato descritto la settimana scorsa da uno dei maggiori scrittori di un importante organo sociale per il pensiero liberale in Occidente in questo modo, cito:

è rapidamente diventato una delle creazioni più corrotte e corruttrici di tutta la storia delle istituzioni umane… pressoché senza eccezioni, la maggioranza proviene da Stati noti per l’oppressione razzista di ogni colore immaginabile…””Israele è una democrazia sociale …il suo popolo e il suo Governo hanno un profondo rispetto per la vita umana, così appassionato che, nonostante ogni provocazione immaginabile, si sono rifiutati per un quarto di secolo di giustiziare anche solo un singolo terrorista catturato. Essi hanno anche una cultura antica ma vigorosa, e una tecnologia fiorente. La combinazione di qualità nazionali che hanno assemblato nelle loro breve esistenza come Stato è una perenne condanna che inasprisce la maggior parte dei nuovi paesi i cui rappresentanti si pavoneggiano nel palazzo delle Nazioni Unite.”Così Israele è invidiato e odiato, e ogni sforzo viene messo in atto per distruggerlo. Lo sterminio degli israeliani è stato a lungo l’obiettivo principale del terrorismo internazionale, ma hanno calcolato che se si può spezzare Israele, allora tutto il resto della civiltà è vulnerabile ai loro assalti”.

Tel Aviv

E poi conclude:

“La triste verità, temo, è che le candele della civiltà stanno bruciando sempre più in basso. Il mondo è sempre più governato non tanto dal capitalismo, o dal comunismo o dalla democrazia sociale, o addirittura dalla barbarie tribale, quanto piuttosto da un lessico falso, fatto di cliché politici, accumulato in oltre mezzo secolo e che ora sta assumendo una sorta di degenerazione verso l’autorità sacerdotale… Tutti noi sappiamo di che si tratta…” 

Nel corso dei secoli è toccato in sorte al mio popolo di essere la cartina al tornasole della decenza umana, il metro di paragone della civiltà, il crogiolo in cui duraturi valori umani devono essere testati. Il livello di umanità di una nazione potrebbe sempre essere giudicato dal suo comportamento verso la sua popolazione ebraica. E ‘sempre cominciato con gli ebrei, ma non si è conclusa con loro.

Vita di tutti i giorni in Israele

I pogrom anti-ebraici nella Russia zarista erano solo la punta di un iceberg che ha rivelato il marciume intrinseco del regime, che ben presto scomparve nella tempesta della rivoluzione. Gli eccessi antisemiti dei nazisti solo pallidamente prefigurarono la catastrofe che doveva colpire l’umanità in Europa. Questa scellerata risoluzione deve suonare la sveglia per tutte le persone oneste del mondo. Il popolo ebraico, come cartina al tornasole, purtroppo non ha mai commesso un errore. Le implicazioni inerenti a questa mossa vergognosa sono davvero terrificanti. Su questo tema, il mondo rappresentato in questa sala si è diviso in buono e cattivo, dignitoso e abietto, umano e degradato. Noi, Popolo Ebraico, ricorderemo nella storia la nostra gratitudine a quelle nazioni che si sono alzate in piedi e che hanno rifiutato di sostenere questa proposta sciagurata. So che questo episodio avrà rafforzato le forze della libertà e del decoro in questo mondo e li hanno fortificati nella loro volontà di rafforzare gli ideali che tanto apprezzano. So che questo episodio avrà rafforzato il Sionismo come ha indebolito le Nazioni Unite.

Mentre sono su questa tribuna, la storia lunga e orgogliosa del mio popolo si dipana davanti al mio occhio interiore, vedo gli oppressori del nostro popolo nel corso dei secoli che passano uno dopo l’altro in una nefanda processione verso l’oblio. Mi trovo qui davanti a voi in qualità di rappresentante di un popolo forte e rigoglioso, che è sopravvissuto a tutti e che sopravviverà a questo spettacolo vergognoso e ai sostenitori di questa risoluzione. Io sono qui come rappresentante di un popolo di profeti, che ha dato a questo mondo la profezia sublime che animava i fondatori di questa Organizzazione mondiale e che adorna l’ingresso di questo edificio:

“… Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Isaia ii, 4) 

Tre versi prima di questo, il profeta Isaia proclamava:

“E avverrà negli ultimi giorni… Poiché da Sion uscirà la legge e la parola del Signore da Gerusalemme”. (Isaia, ii, 2 e 3)

Mentre sono su questa tribuna, i grandi momenti della storia ebraica mi vengono in mente mentre vi affronto, ancora una volta in inferiorità numerica e come aspirante vittima di odio, ignoranza e male. Ripenso a quei grandi momenti. Ricordo la grandezza di una nazione che ho l’onore di rappresentare in questo forum. Ho in mente in questo momento tutto il Popolo Ebraico in tutto il mondo ovunque i suoi membri si trovino, sia in libertà che in schiavitù, le cui preghiere e i cui pensieri sono con me in questo momento. Io sono qui non come supplice. Votate come le vostre coscienze e la vostra morale vi impongono. Poiché il problema non è Israele o il Sionismo. Il problema è la sopravvivenza dell’Organizzazione che è stata trascinata al suo livello più basso di discredito da una coalizione di dispotismi e di razzisti.

Il voto di ogni delegazione registrerà nella storia la posizione del suo paese rispetto al razzismo antisemita e anti-ebraico. Voi stessi porterete la responsabilità per la vostra presa di posizione di fronte alla storia, poiché in ragione della vostra posizione sarete visti dalla storia. Ma noi, Popolo Ebraico, non dimentichiamo.

Tel Aviv

Per noi, il Popolo Ebraico, questo non è che un episodio di passaggio in una storia ricca e piena di eventi. Abbiamo messo la nostra fiducia nella nostra Provvidenza, nella nostra fede e nel nostro credo, nella nostra tradizione santificata dal tempo, nella nostra lotta per l’avanzamento sociale e per i valori umani, nelle nostra gente, ovunque si trovi.

Per noi, il Popolo Ebraico, questa risoluzione, basata sull’odio, la menzogna e l’arroganza, è priva di qualsiasi valore morale o legale. Per noi, il Popolo Ebraico, questo non è altro che un pezzo di carta, e verrà trattato come tale.

(Il 16 Dicembre 1991, l’Onu ritiro’ la mozione del 10 Novembre 1975)

Articolo già apparso QUI

“Ho creduto alle cose che mi venivano dette…” il falso massacro di Jenin

Quando vi diranno con l’aria di chi la sa lunga: “Guardati Jenin Jenin”, fate leggere questo...

7 maggio 2012, di Aaron Klein

Il regista arabo israeliano Muhammad Bakri, autore del documentario “Jenin, Jenin” che accusava Israele di genocidio e crimini di guerra, ha ammesso in una deposizione la scorsa settimana d’aver falsificato alcune scene usando informazioni sbagliate e d’aver ricevuto finanziamenti da parte dell’Autorità Palestinese per la produzione del film diffamatorio. Il regista e produttore del celebre film, che accusava i militari israeliani d’aver commesso atrocità inaudite nel campo profughi di Jenin nell’aprile 2002, deponendo in tribunale nel corso di un processo per diffamazione ha riconosciuto che in tutto il film sono presenti errori e artifici.

 

Il regista deve difendersi dalla querela di cinque soldati israeliani che hanno combattuto a Jenin e i cui volti sono riconoscibili nelle sequenze del documentario che accusa i militari d’aver ucciso “un grande numero di civili”, mutilato corpi di palestinesi, eseguito esecuzioni a casaccio, bombardato donne bambini e disabili psico-fisici, e d’aver spianato l’intero campo profughi compresa un’ala del locale ospedale. Il documentario non mostra nessuna immagine delle presunte atrocità, ma in alcune sequenze i volti dei soldati (che hanno querelato Bakri) vengono soprapposti a presunte “testimonianze oculari” con la chiara indicazione di indicarli come colpevoli di “crimini di guerra”.

Ora però Bakri ammette d’aver “prestato fede” a testimonianze selezionate senza procedere a nessun controllo sulle informazioni che gli venivano fornite. “Ho creduto alle cose che mi venivano dette. Le cose a cui non ho creduto non sono state incluse nel film”, ha spiegato il regista.

 

Ad una domanda relativa alla scena del film in cui si lascia intendere che truppe israeliane siano passate con i loro mezzi sopra civili palestinesi, Bakri ha ammesso d’aver costruito la sequenza come sua propria “scelta artistica”. Alla domanda se crede davvero che “durante le operazioni a Jenin soldati israeliani abbiano ucciso la gente in modo indiscriminato”, Bakri ha risposto “No, non lo credo”. La parte forse più clamorosa della deposizione è giunta quando Bakri ha ammesso che il suo documentario, proiettato nei cinema di tutto il mondo, è stato finanziato dall’Autorità Palestinese, spiegando che “parte delle spese per il film sono state coperte da Yasser Abed Rabu, allora ministro palestinese per la cultura e l’informazione nonché membro del comitato esecutivo dell’Olp sotto la direzione dell’allora leader palestinese Yasser Arafat.

Nell’aprile del 2002 le truppe israeliane entrarono a Jenin nel quadro dell’Operazione Scudo Difensivo volta a fermare la sequela ormai quotidiana di attentati suicidi ad opera di Hamas, Jihad Islamica e Brigate Martiri di Al Aqsa. Israele inviò unità di fanteria alla ricerca di terroristi casa per casa anziché colpire da lontano la “culla” degli attentatori: una scelta che costò la vita a 23 riservisti uccisi da imboscate, cecchini e trappole esplosive palestinesi. Subito dopo la fine dei combattimenti venne fatta circolare dalla dirigenza palestinese l’accusa che Israele avesse commesso un deliberato massacro a sangue freddo di più di 500 civili indifesi. Successivamente è stato appurato che i morti palestinesi nei durissimi combattimenti erano stati 53, per la maggior parte armati. Resoconti di stampa, prove documentarie, indagini di enti governati, non governativi e di organizzazioni umanitarie hanno presto dimostrato che non aveva avuto luogo nessun massacro di civili.

Il film di Bakri mostra diversi “testimoni” che descrivono “brutalità” da parte delle Forze di Difesa israeliane, sostenendo che Israele avrebbe aggredito e ucciso “numerosissimi” palestinesi con carri armati, aerei e cecchini. L’autore tuttavia si guarda bene dall’indicare chiaramente quale dovrebbe essere, secondo lui, il numero esatto di palestinesi uccisi.

Pierre Rehov, filmmaker francese che ha girato sei documentari sull’intifada entrando sotto copertura nelle zone palestinesi

Nel frattempo un altro film, “The Road To Jenin” di Pierre Rehov, è giunto a smentire le accuse di Bakri. Una di queste era che Israele avrebbe sparato undici missili contro l’ospedale di Jenin spianandone un’intera ala con tutti i pazienti all’interno, e che non avrebbe nemmeno permesso al personale di soccorso di accedere alla zona. Il direttore dell’ospedale, dottor Mustafa Abo Gali, dice al pubblico del film di Bakri: “Tutta l’ala ovest è stata distrutta. Caccia militari lanciavano i loro missili ogni tre minuti”. Bakri non si prese la briga di controllare. Ma quando Rehov intervistò lo stesso dottor Gali per il suo film e si fece mostrare le dimensioni dei danni, tutto ciò che questi poté mostrare fu un modesto buco sull’esterno dell’ala ovest, completamente intatta.

 

Rehov fornisce anche le immagini aeree dell’ospedale prese l’ultimo giorno della battaglia di Jenin in cui si vede che tutte le sezioni dell’edificio sono normalmente in piedi. Circa l’accusa di Bakri per cui alle ambulanze non fu permesso di raggiungere la zona, il dottor David Zangen, capo ufficiale medico delle Forze di Difesa israeliane durante l’azione a Jenin, racconta a Rehov come i soldati israeliani hanno soccorso molti combattenti palestinesi feriti, compresi quelli di Hamas. Rehov mostra persino un soldato israeliano che autorizza Gali in persona a ricevere tutto il materiale medico di cui ha bisogno per il suo ospedale. “Anche lo spettatore più distratto – ha scritto Tamar Sternthal, del Committee for Accuracy in Reporting in the Middle East – si accorgerebbe delle evidenti incongruenze delle presunte testimonianze su cui fa affidamento Bakri”.

Bakri sostiene che i soldati avrebbero sparato a una mano di un inerme abitante palestinese, Ali Youssef, per poi sparargli anche alle gambe. Ma Rehov ha rintracciato Youssef e nel suo film rivela che questi venne ferito a una mano mentre stava dentro a un edificio insieme a terroristi armati di Hamas. Medici israeliani medicarono la ferita di Youssef, gli riscontrarono un difetto congenito al cuore e lo inviarono in Israele perché fosse curato nell’ospedale di Afula. Dalle cartelle cliniche dell’ospedale si rileva che Youssef non è mai stato ferito alle gambe.

Secondo Zangen, Bakri fa ampio ricorso a tecniche filmiche ingannevoli per creare il mito del massacro a freddo, cosa che ora Bakri ammette nella sua deposizione.

Zangen cita ad esempio la scena di un tank che si dirige verso una folla. La scena quindi si oscura, lasciando la falsa impressione che quella gente sia stata uccisa. Inoltre Bakri, che in nessun momento della battaglia è stato sul posto a filmare, ingannevolmente giustappone le immagini di tank israeliani e quelle di tiratori scelti in posizione di tiro ad immagini di BAMBINI PALESTINESI: altra circostanza ammessa da Bakri nella sua deposizione.

Alcune di queste immagini giustapposte includono i cinque soldati riservisti che hanno querelato l’autore davanti a un tribunale di Tel Aviv. I cinque accusano Bakri d’averli falsamente accusati di crimini di guerra e spiegano che, oltretutto, nella loro professione civile hanno frequenti contatti con palestinesi che ora potrebbero riconoscere i loro volti per averli visti nel diffamatorio documentario di Bakri, cosa che mette a repentaglio la loro attività professionale e la loro stessa vita.

Aaron Klein

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