Questa volta non si tratta di smentire nulla, al contrario. Ci sono verità che sembrano non interessare nessuno, perché? Una di queste si basa su una domanda semplice che potrebbe, per logica, venire in mente a chiunque e cosi’ non è: Quanto costa il terrorismo all’economia Palestinese?
Per fortuna la domanda se l’è posta Cifwatch e lo spunto lo ha dato l’intervento di Mona Chalabi, sul blog del The Guardian. Chi è Mona Chalabi? Sulla pagina del The Guardian è presentata cosi’:
Mona Chalabi è una ricercatore e giornalista nel team del Guardian. In precedenza ha lavorato presso la Banca d’Inghilterra, l’Economist Intelligence Unit, Transparency International ed è osservatore permanente delle Nazioni Unite.
Mona Chalabi si interessa ai “profughi”, ma solo a quelli Palestinesi, ovviamente. Non le passa neppure per la testa che ce ne siano stati anche di Ebrei. Dunque, Mona Chalabi è quella che attribuisce i gravi problemi che affliggono l’economia Palestinese, interamente a Israele. Per lei il terrorismo Palestinese è stato ed è completamente irrilevante in proposito.
Non una parola sui costi del terrorismo, sulla corruzione dell’amministrazione Palestinese che ormai non è più un segreto per nessuno, non una parola sull’intervento egiziano che ha cambiato le sorti del contrabbando tra Egitto e Gaza, da quando l’esercito ha fermamente operato in modo da distruggere le centinaia di tunnels abusivi che collegavano i due territori. Nulla. Solo e soltanto “l’occupazione” è responsabile. Insomma, qual è il Chalabi-pensiero? Niente di originale:
L’occupazione israeliana nei territori Palestinesi, la barriera che ha costruito lungo e all’interno della Cisgiordania, così come i suoi blocchi terra, aria e mare nella striscia di Gaza hanno posto severe limitazioni al successo delle politiche economiche Palestinesi. Una complessa rete di checkpoint e blocchi stradali rendono difficile per i Palestinesi spostarsi all’interno del Territori, per affari o commercio. Gli agricoltori la cui terra è ormai alle spalle della barriera, sono costretti a richiedere i “permessi per visitatori ‘, che Israele rifiuta regolarmente – in Akkaba sono state approvate il 49% delle domande nel 2011, e solo il 20% nel 2012. Più di recente, un rapporto della Banca Mondiale ha rilevato che le restrizioni israeliane in Cisgiordania soltanto, costano all’economia Palestinese $ 3,4 miliardi (£ 2,1 miliardi) l’anno, ovvero il 35% del suo PIL.
E via discorrendo. I “dati” della Chalabi sono stati confutati, ma cio’ che sorprende (per modo di dire) è il completo annullamento del “fattore terrorismo” nel rapporto. Come al solito, le misure di difesa che Israele è stato COSTRETTO a mettere in atto sono presentate “nude e crude”, senza nemmeno un accenno alle cause che le hanno provocate. Non c’è traccia nei suoi report di parole come “razzi”, “terrorismo”, “terroristi”.
E invece, nonostante la Chalabi non ne voglia parlare, proviamo ad elencare le “voci di spesa” che il terrorismo ha inflitto all’economia Palestinese :
Il costo che l’economia Palestinese subisce a causa delle misure di sicurezza israeliane, rese necessarie dal terrorismo
Il costo del tunnel a Gaza , sia per quanto riguarda i fondi del governo utilizzati per la loro costruzione , così come l’impiego dei materiali da costruzione di calcestruzzo e altri che sarebbero altrimenti utilizzati per migliorare le loro infrastrutture
I costi delle armi , munizioni, cinture esplosive , ordigni esplosivi ( e la formazione di ‘ militanti ‘ per utilizzare tali armi ) nella West Bank e Gaza, da dopo la prima Intifada
Il relativo costo di migliaia di Palestinesi coinvolti nel settore del terrore che potrebbero altrimenti essere impiegati nelle imprese più produttive
Il costo per l’ Autorità Palestinese degli stipendi ai terroristi rinchiusi nelle carceri israeliane
Il costo per l’economia Palestinese per la glorificazione del terrore e la persecuzione sionista da parte della leadership e il conseguente fallimento dei programmi di istruzione , dedizione al lavoro e innovazione.
Un tunnel Rafah-Egitto
Il costo di un razzo Grad, venduto sul mercato iraniano a soli 1000 dollari, con “l’aggravio” calcolato sulle perdite inflitte dall’esercito israeliano ogni volta che una base terroristica è distrutta, i costi di spedizioni estremamente complicate che comportano, tra l’altro, anche le vistose tangenti che necessariamente devono essere pagate ad ogni passo fatto dai razzi, aumenta esponenzialmente fino a costare, dagli iniziali 1000 dollari, 10.000 una volta arrivato a Gaza.
I tunnels da Gaza all’Egitto devono essere necessarimente intonacati, per tentare di evitare possibili crolli e forniti di illuminazione elettrica e linee telefoniche. Un tunnel scoperto ad ottobre, lungo 1,7 km, scavato a 18 metri di profondità, ha richiesto l’impiego di circa 500 tonnellate di cemento e calcestruzzo.
Quante opere avrebbero potuto essere costruite con le centinaia di tonnellate di calcestruzzo e cemento impiegate per i tunnels? Quante scuole, quanti ospedali? Un tunnel scavato a 18 metri di profondità costa approssimativalente 10 milioni di dollari. Nel 2010 le stime parlavano di 7000 persone, impiegate in 1000 tunnels a Rafah.
Nel mese di aprile 2011, il Registro dell’Autorità Palestinese ha pubblicato una risoluzione del governo che concede a tutti i detenuti in Israele per crimini contro la sicurezza e per reati collegati al terrorismo uno stipendio mensile (Al-Hayat Al-Jadida, 15 Aprile 2011). Questa nuova risoluzione, 2010, capitoli 21 e 23, ha formalizzato quella che è stata a lungo una pratica dell’Amministrazione Palestinese. La legge definisce chi ha titolo per essere considerato “prigioniero” e conseguente diritto allo stipendio mensile:
“Chiunque imprigionato nelle carceri dell’occupante [Israele] a causa della sua partecipazione alla lotta contro l’occupazione” (Cap. 1 della legge sui prigionieri, 2004/19, www. alasra.ps, accessibili 9 mag 2011)
Secondo questi parametri, più di 4.500 detenuti (al dicembre 2012) hanno diritto a questi stipendi. E’ da specificare che i detenuti “semplici”, quelli arrestati per reati che nulla hanno a che vedere con il terrorismo, NON ricevono uno stipendio.
Questi pagamenti sono prelevati dal bilancio generale dell’Amministrazione e dalle imposte sul reddito, come per tutti gli altri stipendi della Amministrazione pubblica. (Al-Hayat Al-Jadida 19 giugno 2011). Gli stipendi variano dai 2.400 shekel ai 12.000 shekel. Più lunga è la condanna (e quindi si suppone anche più grave il reato), più lo stipendio aumenta. Quindi, a un semplice fiancheggiatore potrebbe essere assegnato uno stipendio base, mentre a un pluri- omicida spetterebbe lo stipendio massimo.
Per i terroristi che invece avessero scontato le loro condanne e fossero stati rilasciati, l’Amministrazione Palestinese prevede “gratifiche” speciali. Nel settembre 2013, il Primo ministro Rami Hamdallah ha reso nota la cifra di 15 milioni di dollari destinati a 5000 Palestinesi rilasciati dopo aver scontato condanne per terrorismo. Il giornale Al Hayyat al Jadida ha reso noto, nel maggio 2013, che l’Unione Europea ha contribuito al pagamento degli stipendi dell’Amministrazione Palestinese (capitolo nel quale rientrano anche gli stipendi e le “gratifiche” ai terroristi) con 19.200.000 Euro.
L’Australian Christian Charity World Vision, uno dei più importanti gruppi di assistenza australiani, ha invece, nel 2010, finanziato un centro giovanile intitolato al Palestinese terrorista Abu Jihad. Il quotidiano dell’Autorità palestinese ha riferito che i rappresentanti di World Vision Australia hanno incontrato i rappresentanti Palestinesi della Gioventù di Jenin e i responsabili sportivi per pianificare l’operazione del “World Vision Stadio – Palestina / Qabatiya,” all’interno del “Shahid (martire) Abu Jihad Youth Center “, e per discutere di cooperazione futura.
Sono solo accenni, tanto ci sarebbe da approfondire in merito. Certo è che nell’analisi della crisi economica Palestinese non basta cavarsela sbrigativamente con due parolette di rito contro “l’occupante sionista”. L’economia Palestinese deve anche essere necessariamente analizzata dal punto di vista dei costi ingentissimi che il terrorismo e le amministrazioni irresponsabili e corrotte infliggono alla popolazione. Ma questo è un discorso scomodo che al momento solo pochi Stati tra quelli chiamati in causa direttamete dai loro finanziamenti alle due Amministrazioni, quella di Hamas e quella di Abbas, hanno il coraggio di affrontare.
Venerdi’ 27 settembre 2013, ricorrevano i tredici anni dall’inizio dell’Intifada. A Gaza e Ramallah sono stati “festeggiati” con scontri, lanci di molotov e pietre, bandiere di Israele bruciate, ritratti di Peres e Netanyahu dati alle fiamme.
Tra i “pacifisti” o pacificatori o cooperanti italiani che dir si voglia, presenti a Gaza, c’è stato chi – non solo ha trovato giusto festeggiare tale ricorrenza – ma ha anche lamentato la scarsa visibilità data agli scontri sui media mondiali. Per esempio Rosa Schiano, cooperante a Gaza, come lo fu prima di lei Vittorio Arrigoni, al quale è succeduta, scrive sulla sua pagina facebook:
“Una domanda prima di andare a dormire. Una domanda che forse stanotte non mi farà più dormire. Perché i media occidentali non hanno coperto le manifestazioni che si sono tenute oggi in Cisgiordania e Gaza? Non è forse importante riportare dei moti di protesta nei paesi arabi? Non è forse importante riportare di manifestazioni di una resistenza che dura da 60 anni e che chiede la fine di un’occupazione e di un assedio che strangola un’ intera popolazione? Se i media non fossero piegati al ricatto… probabilmente avremmo fatto qualche passo in più.”
Rosa Schiano
E anche, della sua partecipazione attiva alla manifestazione:
“Una bella giornata di resistenza contro l’ occupazione. Il cuore ama, la gola brucia, l’aria è fresca ed il cielo e’ stellato. Nessun drone. Non ho paura stanotte, che sia una buonanotte.”
Ecco, per questa pacifista/pacificatrice/cooperante, ricordare e festeggiare l’Intifada ispira coraggio e amore al cuore. Su Wikipedia si puo’ leggere un elenco parziale delle vittime israeliane dell’Intifada, quell’impresa omicida e fallimentare, quel periodo di sangue e terrore che coinvolse tutti, palestinesi e israeliani.
Wichlav Zalsevsky (24), Rabbi Binyamin Herling (64), Amos Machlouf (30), Ayelet Shahar Levy (28), Hanan Levy (33), Noa Dahan (25), Sarah Leisha (42), Gabi Zaghouri (36), Miriam Amitai (35), Gavriel Biton (34), Itamar Yefet (18), Shoshana Reis (21), Meir Bahrame (35), Rina Didovsky (39), Eliyahu Ben-Ami (41), Eliahu Cohen (29), Binyamin Ze’ev Kahane (34), Talia Kahane (31), Ofir Rahum (16), Motti Dayan (27), and Etgar Zeituny (34), Dr. Shmuel Gillis, Simcha Shitrit (30), Staff-Sgt. Ofir Magidish (20), Sgt. David Iluz (21), Sgt. Julie Weiner (21), Sgt. Rachel Levy (19), Sgt. Kochava Polanski (19), Cpl. Alexander Manevich (18), Cpl. 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Questi sono i nomi di alcune delle vittime dell’Intifada; ricordare il loro assassinio con lanci di molotov e propositi omicidi a Rosa Schiano rende il cuor contento.
Ma come hanno fatto i terroristi palestinesi a vincere la battaglia dei media? Come è possibile che nel ricco e pigro Occidente ci sia chi volentieri si schiera dalla parte degli assassini? Blaise Pascal una volta osservò che “la gente … arriva a credere non sulla base di prove, ma in base a quello che trova attraente”. ( De l’Art de persuader (“On the Art of Persuasion”), 1658) Oggi questo è confermato dalla scienza, e spiega perché i palestinesi hanno vinto la guerra dei media. Nel 2011 – un’epoca di informazioni abbondanti e verificabili – alcuni sondaggi rivelarono che ben il 40-60% dei cittadini europei ritiene che “Israele sta conducendo una guerra di sterminio contro i palestinesi.” Tanto più sconcertante se si considera che è Israele ad essere regolarmente minacciata di distruzione. I risultati del sondaggio non sono peculiari all’Europa: simili tendenze preoccupanti sono state osservate tra i giovani americani, liberali, e le minoranze.
Memoriale ad alcune delle vittime israeliane del terrorismo
Nella lotta per i cuori e le menti (come diceva Rosa Schiano? “Il cuore ama, la gola brucia”), i propagandisti della “causa palestinese” hanno intuito da tempo ciò che la scienza dimostra ora. Immagini, spesso costruite completamente, in stages improvvisati sul posto, e accuse che attivano automaticamente la compassione pubblica sono incomparabilmente più convincenti della secca, argomentazione difensiva.
In effetti, la compassione – adattamento di sopravvivenza profondamente radicata – ha dimostrato di riuscire a far deviare pesantemente i nostri atteggiamenti sociali a favore di coloro che percepiamo essere vittime innocenti. I bambini che soffrono sono i testimonials ideali di questa istintiva compassione. Il nostro giudizio sociale “può essere influenzato più dalle emozioni che dalla ragione”: si tende a favorire quelli che vediamo come vittime in difficoltà anche a scapito delle più numerose, ma senza volto, altre vittime.
La rappresentazione dei palestinesi come vittime innocenti in pericolo è il filo conduttore che attraversa tutta la propaganda palestinese – ed è stata la chiave del suo successo popolare. Attraverso la produzione di massa di immagini strazianti, incentrate sui bambini, la messa in scena delle “news”, la retorica manipolatrice, e la rigida censura, la propaganda palestinese ha usato con successo i media per imporre i Palestinesi come vittime del tutto innocenti della brutalità israeliana. Dopo essersi assicurata l’empatia del pubblico e bypassato il suo ragionamento critico, ritraendo i Palestinesi come vittime inermi, la propaganda palestinese si è creata milioni di alleati occidentali, ed i Palestinesi si sono messi al riparo da qualsiasi responsabilità delle loro scelte politiche.
Dall’inizio della prima Intifada, i Palestinesi hanno deliberatamente usato i bambini come “fanteria” per le rivolte dedicate alla TV: l’immagine di David (i bambini palestinesi) inermi e pero’ irriducibili nel loro coraggio, di fronte a Golia-Israele, armato, organizzato e brutale, è risultata vincente, indipendentemente dai fatti reali:
“Le emozioni che tali immagini suscitano hanno più probabilità di vincere rispetto alla discussione razionale. Questa tendenza è così comune che nel campo della psicologia sociale è chiamata Errore Fondamentale di Attribuzione (FAE). Il FAE è “La tendenza a dare attribuzioni, interne oltre che esterne, per spiegare il comportamento osservato negli altri.” … Così, quando un telespettatore vede l’ennesima immagine di un soldato israeliano contro un lanciatore di pietre di sedici anni, rischia di credere che gli israeliani siano assassini assetati di sangue, mentre i Palestinesi semplicemente un popolo oppresso che vuole la sua libertà e la sua terra. L’attribuzione avviene quasi istantaneamente”.
L’efficacia dei bambini palestinesi morti come strumenti di propaganda fu sottolineata da Yasser Arafat nel 2002:
“Il bambino palestinese in possesso di una pietra, di fronte a un carro armato, è il più grande messaggio al mondo, quando quell’eroe diventa un ‘martire”
Quando Ouda fu poi ucciso durante disordini, un Arafat raggiante dichiarò ai suoi giovani compagni di classe, “Salutiamo lo spirito del nostro eroe, il martire, Faris Ouda” Dopo aver cantato più volte il nome di Ouda tra applausi affascinati, Arafat incoraggio’ i bambini – alcuni di appena 11 o 12 anni – a emulare la “fermezza e il sacrificio,” di Ouda, attaccare i soldati e morire per le telecamere dei media occidentali.
E poi, oltre ai “bambini shahid” le costruzioni Pallywood, delle quali il “caso Al Dura” fu l’antesignano. Questo fenomeno di “news” confezionate per le telecamere è tutt’ora in corso ed è così dilagante che gli è stato dato un nome: “Pallywood.” Il Professor Richard Lande e i suoi colleghi hanno raccolto numerose prove, esponendo la pratica di finte ferite, simulate per le telecamere occidentali, così come “finti funerali, messe in scena di sparatorie, … “nonne piangenti” professioniste “, e “false evacuazioni di ambulanze” . Gli attori sono diventati così sfacciati, e questa frode così comune, che in un video ormai famigerato del” funerale “di un palestinese, ucciso da Israele, il cadavere che cade fuori dalla sua barella salta rapidamente indietro.
Gli esempi sono innumerevoli e spesso sono stati “trattati” anche in questa pagina: uomini morti che dopo poco si alzano e aprono porte, come il famoso video presentato dalla BBC;
l’uomo che pur essendo ripreso mentre cerca disperatamente di salvarsi dal fuoco israeliano, chiamato al telefono si ferma e risponde e cosi’ via. Il fotografo italiano Ruben Salvadori ha ben evidenziato questa collusione tra sceneggiature da una parte, e media occidentali dall’altra.
Le immagini mentali, moralmente cariche di storia, che vengono evocate da questa retorica stimolano il pubblico ad entrare in sintonia automatica e, quindi, a fianco con i Palestinesi. Le aggressioni palestinesi sono cancellate nel processo.
Come parte di questa strategia di riformulazione morale, i propagandisti palestinesi hanno riscritto il sionismo, la lotta per l’autodeterminazione ebraica nella patria ebraica, che è diventato “colonialismo” (e, per estensione, i Palestinesi sono stati accomunati ai nativi americani) . I Palestinesi che chiamano il loro terrorismo “resistenza” (“Mukawama”), sono equiparati quindi alle vittime della Shoah e ai combattenti della resistenza durante la seconda guerra mondiale. A rafforzare questo immaginario Ebreo / nazista, i Palestinesi si sono autonominati un popolo di “rifugiati” fuggiti dai “massacri” e dalla “pulizia etnica”. Allo stesso modo, la lotta al terrorismo di Israele è raffigurata come” razzismo “e il blocco contro Gaza, definito legittimo dalle Nazioni Unite, si caratterizza come “punizione collettiva“, per evocare ingiustizie come l’internamento giapponese nella seconda guerra mondiale . In altri momenti, i Palestinesi si paragonano a Gesù perseguitato dai Giudei, o alle vittime nere della supremazia bianca: Israele è accusato di essere uno stato di “apartheid” o, in alternativa, i Palestinesi sono identificati con Rosa Parks. In ogni caso, questa retorica calcolata, modella l’immagie dei Palestinesi vittime del tutto passive ed innocenti della ingiustificabile crudeltà israeliana.
La compassione è un potente adattamento evolutivo che, quando innescato da immagini di sofferenza ingiusta, ostacola la nostra capacità di rendere razionali giudizi morali. L’esperienza della compassione è di fattopsicologicamente gratificante e ci costringe a restare al fianco delle vittime percepite, indipendentemente dal contesto e dei fatti. Attraverso la messa in pericolo deliberata di bambini, delle immagini costruite, della retorica manipolatrice e della prepotenza dei giornalisti, i Palestinesi hanno sapientemente proposto sé stessi come vittime innocenti della crudeltà, e hanno quindi sfruttato la compassione pubblica. Di conseguenza, possono ora contare sull’appoggio di milioni di occidentali. E, dopo aver cementato la loro immagine di vittime innocenti, i crimini compiuti dai terroristi sono regolarmente assunti come semplici reazioni a reati israeliani. Gli israeliani hanno a lungo cercato di conquistare le menti con una moltitudine di argomenti difensivi e giustificazioni legali, e hanno perso. I terroristi palestinesi hanno invece scommesso su i “cuori”, e hanno vinto.
Basta con l’incitazione all’odio! Basta con i messaggi razzisti sul web! Stop all’antisemitismo! Sono appelli che leggiamo ovunque. In un discorso pronunciato il 5 novembre 2012, davanti all’Assemblea generale dell’Onu, il relatore speciale per le forme contemporanee di razzismo e di xenofobia, Mutuma Ruteere, ha deplorato l’aumento del razzismo su internet a livello mondiale. “Il numero di incidenti implicanti violenze e crimini a carattere razzista, perpetrati sotto l’influenza di una propaganda incitante all’odio su internet, è in aumento, malgrado l’adozione di misure positive…”
Dopo la strage compiuta da Mohammed Merah alla scuola Ozar Ha Torah di Toulouse, la Francia si interrogava: siamo di fronte a una recrudescenza di antisemitismo? Come deve reagire il governo?
Che i “discorsi d’odio” non sono innocui lo sappiamo tutti, ci sono esempi sanguinosi nella storia recente. Conosciamo il ruolo che le trasmissioni della radio “Le mille colline” in Kenya e Rwanda, hanno avuto nell’incoraggiare al genocidio. Sappiamo quanto, nei paesi arabi, i sermoni di alcuni imam abbiano contribuito agli scoppi di odio etnico e settario. Le piattaforme sociali come Youtube o Facebook invitano a segnalare post, pagine e video dai contenuti che “incitano all’odio”.
Il 30 gennaio scorso, la commissione Giustizia del Senato belga ha approvato un progetto di legge che rende punibile l’incitazione indiretta al terrorismo, il recrutamento e l’addestramento di terroristi. Adottando in questo modo nella sua legislazione nazionale una decisione-quadro europea.
Ma allora, come giudicare il museo di Parigi, sovvenzionato dal governo francese, che ha inaugurato una mostra di foto di shahid (attentatori suicidi) palestinesi, che il museo chiama “combattenti per la libertà”?
una delle foto esposte
La mostra di 68 fotografie si intitola “Morte”, di Ahlam Shibli, inaugurata il 28 maggio al Jeu de Paume, museo di arte contemporanea di Parigi. Il sito web del museo descrive i kamikaze come “coloro che hanno perso la vita nella lotta contro l’occupazione”, e la mostra come “sforzo della società palestinese, per preservare la loro presenza.” Secondo il CRIF, l’associazione delle comunità ebraiche francesi, le foto commemorano appartenenti “alle Brigate dei Martiri di al-Aqsa ‘, alle Brigate Izz ad-Din al-Qassam [di Hamas] e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. “Tutti e tre sono designati dall’Unione Europea come gruppi terroristici”.
In una delle foto appare Osama Buchkar, un operativo FPLP che ha ucciso tre persone e ne ha ferite 59 in un attacco terroristico compiuto in un mercato all’aperto a Netanya, il 19 maggio 2002. La didascalia della sua immagine dice che “ha commesso una missione martire a Netanya.”
In una lettera al ministro della Cultura e delle Comunicazioni di Francia, Aurélie Filippetti, il Presidente del CRIF, Roger Cukierman, ha definito “particolarmente deplorevole e inaccettabile una mostra che giustifica il terrorismo, nel cuore di Parigi.
Come si concilia questa iniziativa con la lotta al terrorismo nella quale la Francia si dichiara impegnata? Una mostra del genere non fa parte di quell’incitamento all’odio, condannato unanimamente da tutti i paesi europei?
Tradurre è tradire, si sa. Ma un giornale israeliano, Ha’aretz, sebbene la sua versione in ivrit sia di gran lunga meno diffusa di quella in inglese, puo’ continuamente sbagliare le sue traduzioni e, guarda caso, ogni volta che succede sempre e soltanto a scapito dell’immagine di Israele?
L’ultimo di questi “sbagli di traduzione” si è verificato nell’edizione inglese del 23 aprile 2013. Il giornale israeliano aveva riportato la notizia della comparizione del terrorista Sameer Issawi davanti alla Corte di Giustizia. L’articolo, tradotto da quello in ivrit di Jack Khoury, raccontava di come l’apparizione in aula di Issawi, reduce da un lungo semi-digiuno di protesta, avesse scioccato i presenti, tanto che giudice e pubblici ministeri avevano concordato con Issawi quando quest’ultimo aveva paragonato le sue condizioni a quelle dei sopravvissuti nei lager, durante la Shoah. La correzione è apparsa sul giornale il 24 aprile. Ha’aretz ammettendo lo “sbaglio di traduzione” pubblicava la “versione giusta” di cio’ che Khoury aveva scritto:
L’articolo di Jack Khoury del 23 aprile conteneva un errore di traduzione: il giudice Dalia Kaufmann e il pubblico ministero si erano detti scioccati sia per le condizioni di Issawi, sia per il suo paragonarsi ai sopravvisuti dei campi di sterminio
Certo, un errore ci puo’ sempre stare, anche se -come in questo caso – le conseguenze morali e politiche che ne potrebbero derivare dovrebbero indurre all’accuratezza. Ma quante volte è successo lo stesso “incidente” a Ha’aretz? La maggior parte degli articoli della versione inglese di Ha’aretz sono tradotti da quella in ivrit. Ma, sempre per i soliti “errori” di traduzione – a volte macroscopici, a volte più sottili – quando si tratta di rendere noti fatti riguardanti la militanza e la violenza palestinese queste parti sono cancellate o “maltradotte”, tanto che alla fine la versione inglese differisce completamente da quella in ivrit.
Per esempio, l’11 Gennaio 2011, Zvi Barel ha scritto in ivrit in merito a un piano del sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, per collegare lo sfratto degli ebrei che risiedono in un edificio illegale nel quartiere di Silwan allo sfratto di arabi che vivono anch’essi in costruzioni abusive nello stesso quartiere: “una casa nella quale gli ebrei vivono illegalmente sarà scambiata con una casa nella quale palestinesi vivono illegalmente” .
L’articolo si riferiva all’avamposto di Beit Yonatan, nella zona di Silwan. Il sindaco Barkat aveva proposto uno scambio immobiliare: Beit Yonatan non sarebbe stata sigillata e in cambio il Comune avrebbe ritardato lo sfratto delle case di Abu Na’eb occupate illegalmente da palestinesi. Per ogni casa israeliana occupata illegalmente, avrebbe corrisposto una casa palestinese occupata illegalmente.
Ma nella versione inglese, la frase ha assunto un significato completamente diverso – e falso – modificando “illegale” palestinese con “legale” : “Una casa nella quale ebrei vivono illegalmente sarà scambiata con una casa dove palestinesi vivono del tutto legalmente.” Sbaglio consapevole? Inconsapevole? E ‘impossibile sapere, ma l’introduzione della parola “tutto”, che non compare nel testo originale ebraico, suggerisce forse qualcosa di più deliberato di una semplice svista. (Le edizioni in inglese, on-line e cartacea, sono state successivamente corrette dopo che Presspectiva, il sito in ivrit di CAMERA, aveva contattato gli editori.
E ci fermiamo qui? Ma no! Ce ne sono una serie impressionante di questi “errorini di traduzione” di Ha’aretz:
Settembre 2011, tensioni in merito al riconoscimento Onu della Palestina nel ruolo di “stato non membro”. Ricca occasione per un po’ di “sbagli di traduzione”! Il giornalista Avi Issacharoff riporto’ le testuali parole di Latifa Abu Hmeid, madre di quattro terroristi, che furono citate dal presidente palestinese Mahmoud Abbas per dare il via al procedimento presso la sede delle Nazioni Unite a Ramallah e nella lettera, indirizzata al segretario generale Ban Ki-Moon, che lancio’ la campagna di statualità. La versione in ivrit dell’articolo di Issacharoff riportava le parole di Abu Hmeid:
Spero che non ci saranno sparatorie e non ci saranno feriti. Non vogliamo più vedere nostri morti. Ho pagato un prezzo molto alto, come ogni famiglia palestinese. C’è chi è morto, c’è chi è prigioniero. Mi si impedisce di vedere i miei quattro figli. Vogliamo la pace con Israele, ma Israele non vuole la pace. Torneremo alle nostre terre, incluse quelle del 1948.
E nella versione inglese? Forse rendendosi conto che le ultime parole avrebbero un po’ “sciupato” il tono di quelle precedenti, il traduttore le ha semplicemente omesse.
Il 19 ottobre 2011, in occasione dello “scambio di prigionieri” tra Shalit e più di mille detenuti palestinesi, un articolo in ivrit precisava come questi ultimi si fossero resi responsabili di crimini di terrorismo odiosi:
I nomi dei 1.233 prigionieri liberati in questi ultimi anni significano poco per la maggior parte degli israeliani. Ma i prigionieri implicati nello scambio con Shalit sono ben conosciuti attraverso i nomi degli attacchi ai quali hanno partecipato: Sbarro, Delfinario, il Park Hotel, Moment Café, e altri tra gli attacchi più gravi mai avvenuti in Israele, questa è la differenza [tra questi rilasci e i precedenti.]
Incredibilmente, la versione in inglese dava una versione completamente diversa, nella quale si leggeva che i nomi dei detenuti coinvolti nello scambio con Shalit erano del tutto sconosciuti agli israeliani:
I nomi della maggior parte dei prigionieri liberati dal Luglio 2007 significano poco per la maggioranza degli israeliani, cosi’ come i nomi dei prigionieri liberati martedì (nel primo turno dello “scambio Shalit)”.
Il paragrafo in ivrit che sottolineava come Israele avesse inteso questo scambio nel senso di “gesto di buona volontà” fu completamente eliminato e al suo posto si leggeva un vago “per ragioni politiche”.
Il 14 luglio 2011, un articolo di Anshel Pfeffer, nella versione inglese di Ha’aretz, riportava l’uccisione di Ibrahim Sarhan come quella di “un civile di 22 anni”, nonostante la versione in ivrit riportasse: Hamas ha dichiarato trattarsi di un membro dell’associazione (La versione inglese fu poi modificata a seguito dell’intervento di Presspectiva).
L’elezione di Nabil ElAraby a ministro degli Interni egiziano, nel marzo 2011, nella versione inglese di Ha’aretz apparve cosi’:
“Nabil Elaraby ha partecipato, con gli israeliani, ai tavoli negoziali, in diverse occasioni, fin dai pienamente riusciti Accordi di Camp David, nel 1978, che ha portarono al trattato di pace tra Egitto e Israele.”
Come il sito Web CiFWatch ha sottolineato ironicamente: “Sembrerebbe proprio il tipo di bravo ragazzo che Israele dovrebbe essere felice di vedere salire in alto nel ‘nuovo Egitto’.” Eppure, il sottotitolo ivrit non recava un messaggio cosi speranzoso: “Nabil Elaraby, che ha servito come ambasciatore egiziano alle Nazioni Unite, ha sostituito Ahmed Abu el Rit. In passato ha guidato iniziative contro Israele “.
Ma i “fraintendimenti” di Ha’aretz non si limitano agli “errori di traduzione”, c’è di più e di peggio. Il primo maggio 2011, un articolo nella versione inglese informava che i soldati israeliani furono i responsabili della morte di Mohammed Al Dura :
Jamal Al-Dura (il padre di Mohammed Al Dura N.d.R.) aveva citato in giudizio il dott. Yehuda per diffamazione, dopo che il medico, che lo aveva operato nel 1994, aveva esposto i dettagli della sua cartella clinica, al fine di sostenere che le cicatrici più vecchie di al-Dura furono il risultato di un intervento chirurgico – e non causate dal fuoco dell’IDF che uccise suo figlio nel mese di settembre, 2000.
Le parole della versione in ivrit dalle quali si apprendeva senza ombra di dubbio che l’accusa all’IDF per la morte di Al Dura era un’idea di Jamal Al Dura e non di certo una realtà comunemente accertata, furono semplicemente tagliate. Anche questa volta, l’interevento di Presspective indusse i redattori a correggere il tiro.
Il 17 giugno 2011, la versione inglese di Ha’aretz riportava che “arabi e donne sposate non possono servire nell’esercito”, mentre, sebbene tali gruppi siano esentati dall’obbligo non sono fatti oggetto di divieto e infatti esistono casi in proposito. La frase inesatta non compariva nella versione in ivrit.
Il 4 dicembre 2011, la versione in inglese di Ha’aretz riportava un articolo di Gili Cohen:
La Legge della Nakba, che permette di privare le organizzazioni che si oppongono ai principi fondamentali dello Stato di Israele dei finanziamenti “fa grandi danni alla libertà di espressione politica, alla libertà artistica e al diritto di manifestare” .
Pero’, la cosiddetta Legge Nakba non si applica alle “organizzazioni” in generale, ma solo a enti finanziati dal governo, come le scuole pubbliche o comuni. E l’unico finanziamento a rischio è il denaro del governo, non donazioni, straniere o meno che siano. Nella versione ivrit di questo articolo non è menzionata affatto la “Legge Nakba” . Perché Ha’aretz in inglese ha sentito il bisogno di storpiare la versione originale?
Le rettifiche, ovviamente, hanno sempre meno risalto della menzogna
Piccoli “aggiustamenti”, una cosetta qua una là, con qualche occasionale vero e proprio falso, servono a immettere nel cervello del lettore medio una serie di “informazioni” che resteranno, consciamente o meno, nella sua memoria e andranno a formare le sue idee politiche in merito a situazioni delle quali puo’ avere notizia solo tramite fonti privilegiate ed Ha’aretz, giornale israeliano, è considerato una di queste. In quanti saranno in grado di poter o voler verificare la versione originale del giornale e rendersi cosi’ conto fino a che punto un’omissione, un “piccolo errore” un aggettivo di troppo possono modificare completamente il senso di una informazione?