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Come ti creo il “dramma”: la mediatizzazione di una conflittualità

Nel mondo della comunicazione moderna le immagini hanno assunto un valore di gran lunga superiore a quello delle parole. L’immagine colpisce, parla, a volte aggredisce. Come succede quando guardiamo un film, le immagini immedesimano lo spettatore nella vicenda, da mero spettatore lo eleggono a “testimone”. “E’ vero perché ho visto la foto! Ci sono le foto”. Ma le foto, quelle immagini che ci invadono e danno volti a conflitti lontani, rappresentano cio’ che vogliono rappresentare, non la realtà dell’evento. Mostrano una piccola porzione del fatto, quella scelta per “comunicare”. Ruben Salvadori ha pubblicato un video in cui dimostra quante siano le fotografie di guerra che vengono falsificate. Salvadori, 22 anni, doppia laurea in Relazioni Internazionali e Antropologia/Sociologia alla Hebrew University di Gerusalemme, Israele. Esposto a molte culture diverse fino dall’infanzia, Ruben usa la fotografia come strumento per soddisfare la sua curiosità nel campo dell’antropologia.

Sperimentando sia con foto che video, la sua ricerca visuale spazia da antichi rituali e culture che stanno scomparendo alle dinamiche di gruppi moderni della società e i suoi stigma. Ruben è stato direttore della fotografia del film documentario “Inside Jerusalem” e sta ora producendo un documentario multimediale sull’antico rituale di flagellazione dei Vattienti oltre a continuare la sua carriera fotografica. Il suoi lavori sono stati pubblicati su vari giornali e piattaforme di notizie in Israele, Stati Uniti, Korea, Arabia Saudita, Austria, Germania, Italia, Polonia, Bulgaria. Il suo progetto “Dietro le quinte del fotogiornalismo” è stato selezionato dall’agenzia Israeliana Flash90 per una pubblicazione poi presentata al festival Visa Pour l’Image a Perpignan. Ha vissuto in Italia, Stati Uniti e Israele; parla italiano, inglese, ebraico e spagnolo. Il suo progetto, Photodreaming, dietro le quinte del fotogiornalismo parte dall’assunto che l’industria mediatica richiede immagini strettamente drammatiche, costringendo i fotogiornalisti a cercare drammaticità nei loro soggetti anche quando non c’è.

Il nocciolo del discorso che il bravissimo Ruben Salvadori ha evidenziato è il seguente: la presenza del fotografo influisce sempre e comunque sull’azione, sia solo per il suo effettivo essere sulla scena, sia per l’attrezzatura che porta addosso (maschera antigas, almeno due fotocamere, elmetto, ecc…) il che trasforma la situazione in un vero e proprio set, in uno show, in cui il fotografo stesso diventa a suo malgrado un attore.

Ruben si è chiesto il perché di questa situazione e giunge ad una conclusione: il mercato fotografico richiede fotografie d’effetto, drammatiche, intense e se la situazione non ha queste carattaristiche, il fotogiornalista è costretto a crearle. In questo modo si rompe il tabù del fotografo invisibile che non deve influenzare la scena che riprende, che è il cardine di tutta la fotografia di reportage. Naturalmente quello che ci siamo abituati a chiamare “il conflitto israelo-palestinese” non poteva restar fuori da questa triste legge di mercato, ma al contrario, per il suo perdurare negli anni, per le implicazioni geopolitiche e morali, per la “partigianeria” da stadio che scatenano le due parti conflittuali, offre materiale a iosa da poter manipolare a piacimento. Ruben Salvadori ha scelto di fotografare il backstage di una scena che si ripete ogni venerdì a Silwan, un sobborgo di Gerusalemme. I ragazzi palestinesi improvvisano dei blocchi stradali e decine di fotografi sono pronti a immortalarli: vengono ritratti con il viso coperto e circondati dal fumo, e sembrano coinvolti in scontri violenti con i militari israeliani. Ma spesso la realtà è abbastanza diversa. Salvadori ci dice “open your eyes”, ma ne siamo ancora capaci? O l’industria dell’immagine ha già completamente manipolato la nostra capacità di vedere oltre il “guardare”?

Prendiamo ad esempio questa foto, pubblicata dall’Indipendent il 21 Giugno 2010, e poi circolata freneticamente in rete, che illustrava l’articolo: “Blair sollevato dall’offerta israeliana di allentare il blocco di Gaza”. Che cosa evoca a “colpo d’occhio” questa foto? Bambini dietro le sbarre, bambini incarcerati. Una delle accuse “favorite” da chi vuole accusare Israele. Ma è proprio questa la realtà della foto?

Ma la sequenza delle foto, il backstage di cio’ che vuole essere evocato con l’immagine singola, rivela anche altro

Non bambini imprigionati, non “i bambini di Gaza” che chiedono la cessazione del blocco, ma un piccolo gruppo di persone, ad un cancello della zona industriale di Gaza, con i loro cartelli ben scritti in inglese corretto da posizionare tra le sbarre, per dare l’impressione di una protesta inscenata all’interno di un carcere. La stessa tecnica di ripresa dal basso e di lato è impiegata per dare l’impressione che in realtà vi siano più persone coinvolte, rispetto alla realtà.

Sbarre e fili spinati sono un tema comune utilizzato dai “manipolatori della realtà”

E le donne e i bambini sono, ovviamente, i soggetti più “sfruttati”

“Ruben, il tuo video descrive le caratteristiche della foto ideale per gli editor. Puoi dirci qualcosa su questo? Come funziona? Come influenza il contenuto delle foto? ”Salvadori: “Più precisamente, il mio progetto descrive le caratteristiche della foto ideale per il mercato dei media, che va da chi produce l’immagine, fino al visualizzatore. Ciò che da noi (fotogiornalisti, editori, enti pubblici) ci si aspetta è il produrre una fotografia “drammatica”, che semplifichi concetti complicati in un singolo fotogramma. Al fine di abbattere una situazione complessa in solo una foto, siamo costretti a utilizzare stereotipi.

I media non hanno tempo, tutto deve essere immediato, e gli stereotipi fanno il loro lavoro. Ma l’obiettivo principale del mio progetto è il fatto che il mercato si aspetta di produrre immagini molto forti. E ‘un mercato molto competitivo nel quale dobbiamo costantemente confrontare il nostro lavoro con altri professionisti e quindi dobbiamo produrre immagini che siano in accordo con le scelte di altri fotografi, non del pubblico in generale.

Il modello “drammatico” è promosso dai più alti standard della professione, se si dà un’occhiata ai premi più importanti del settore, infatti, si vedrà come essi promuovono la ricerca della tragedia. Prendete l’attuale vincitore del Premio Pulitzer della sessione di fotografia “ultime notizie”per esempio, il quale afferma chiaramente che il vincitore è stato scelto per “il ritratto di dolore e disperazione” ripreso più da vicino (sito del Premio Pulitzer) o il vincitore nel 2009 per le sue “provocatorie, impeccabilmente composte immagini di disperazione “(ibid.).”

“Cosa c’è di sbagliato se gli editori chiedono a un fotografo alcuni tipi di immagini? Qual è la linea tenuta?” Salvadori: “Non credo sia l’editor che chiede al fotografo un’ immagine drammatica. Il fotografo cerca il dramma automaticamente. Ciò è problematico perché molti di noi tendono a drammatizzare situazioni che drammatiche non sono affatto, come si vede in molti dei casi indicati nel mio progetto. Ciò che ne deriva è una percezione del conflitto in qualche modo distorta dalla gravità reale degli eventi. Inoltre, la necessità di velocità nel processo di produzione delle immagini non permette al fotografo di comprendere a fondo ciò che sta fotografando ad un livello intimo. A causa della mancanza di tempo, dobbiamo fare affidamento su una comprensione superficiale della manifestazione e delle sue dinamiche, e questo crea immagini che non sono ben radicate in un contesto significativo.”

“Collusione è la parola giusta per descrivere l’interazione tra i fotografi e i lanciatori di pietre?” Salvadori: “È chiaro che la presenza dell’uno è conveniente per l’altro. Hanno bisogno di noi per mandare il loro messaggio. Mentre ci sono spesso tensioni tra i fotografi e le forze israeliane che cercano di tenerci lontano dalla scena, è molto raro vederle tra fotografi e rivoltosi. Sarebbe contro il loro interesse rivoltarsi contro di noi e, d’altra parte, noi abbiamo bisogno della loro presenza per documentare i disordini, è reciproco. Non vorrei definire questo collusione, o collaborazione, in quanto cio’ non avviene in un modo attivo e diretto, ma credo che entrambi abbiamo un ruolo nel gioco degli interessi dell’altro.

Questa è la differenza principale tra il fotogiornalismo e fotografia documentaria: il primo è una raccolta rapida di notizie, mentre il secondo è una ricerca profonda all’interno dell’essenza di un argomento. Purtroppo non c’è più business nel mondo fotogiornalistico, e non possiamo permetterci di perdere tempo e denaro per sviluppare un reportage in profondità, che è anche più difficile da vendere rispetto ai singoli, spot delle immagini drammatiche.”

“Che cosa dovrebbe fare un fotografo quando è chiaro che la sua presenza sta influenzando le azioni delle persone che ha in “copertura”? ”Salvadori: “Prima di tutto un fotografo ha bisogno di realizzare questo. Stai dando per scontato, come ho fatto anche io, che tutti i fotografi siano consapevoli che la loro presenza ha un’influenza in qualche misura nel corso degli eventi, ma si tratta di un presupposto sbagliato. Sono rimasto scioccato sentendo quanti fotografi erano del tutto sicuri che vederci arrivare sul posto “confezionati”, portando caschi, maschere antigas e una media di due telecamere grandi ciascuno, non avesse avuto alcun effetto sulle parti in conflitto.

Penso che questo sia il più importante (primo) passo da raggiungere: la comprensione che abbiamo un impatto su ciò al quale assistiamo, per la semplice ragione che siamo lì (lasciamo anche stare tutte le nostre attrezzature, sto parlando di essere lì come qualsiasi persona, non necessariamente nei panni del fotografo).

Questo è il concetto basilare che molti altri campi hanno già assunto tempo fa; guardate l‘”effetto osservatore” in fisica, secondo il quale una situazione non può essere assistita senza cambiarla in una certa misura, o nell’Antropologia del 1900 che ha da tempo capito quanto non è possibile osservare un’altra cultura senza avere un’influenza su di essa. E ‘tempo che anche noi realizziamo questo. Siamo qui, siamo parte dello spettacolo proprio come qualsiasi altro, prendiamo foto.Riconoscere questo è la cosa più importante che un fotografo può fare al riguardo. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che non possiamo cercare il sogno utopico di documentare una realtà oggettiva. Non vi è nulla di simile, e abbiamo bisogno di saperlo. Ogni fotografia è una interpretazione di qualche tipo e ogni volta che si assiste ad un evento siamo parte di esso in una certa misura. Potremo non lanciare pietre o sparare gas lacrimogeni, ma questo non significa che siamo entità invisibili che non alterano la scena.

Il passo successivo non riguarda il fotografo. Ha bisogno di continuare il suo importante lavoro di documentare gli eventi, non possiamo fare a meno di lui. Il passo successivo deve essere del pubblico, che in generale è pigro e spesso non pensa più di quanto viene mostrato. Il pubblico ha bisogno di avvicinarsi alle fotografie con una visione critica, essendo a conoscenza del modo in cui è stata prodotta l’immagine, controllo della fonte, confronto con gli altri.Non sto puntando il dito accusatore contro i fotografi, questo sarebbe ipocrita dato che lo sono io stesso, e mi rendo conto del fatto che lavoro secondo gli stessi standard del mercato. Non sto dicendo che sono meglio di altri, come alcuni hanno frainteso. Quello che sto cercando di fare è di educare il pubblico ad essere un osservatore attivo, non ho l’obiettivo pretenzioso di cambiare il gigante intero dei Media.

Sono anche consapevole del fatto che con questo progetto si pongono tanti interrogativi che ho poi lasciato senza risposta. Credo che il discorso etico in tutto il mondo del fotogiornalismo sia in una fase primordiale e che sia ancora presto per trovare tutte le risposte, perché abbiamo prima bisogno di porre le domande giuste. Questo è ciò che cerco di fare.” “Che tipo di reazione hai avuto da parte dei fotografi che lavorano a questi scontri? Salvadori: “Ci sono state reazioni diverse a seconda dei fotografi. Ad alcuni è piaciuto molto il progetto e mi hanno sostenuto con grande supporto, mentre altri erano fortemente contrari. Voglio far notare che alcune delle fotografie sono state inizialmente caricate su Internet con una didascalia generale unica per tutti gli shot. Poiché il messaggio che stavo cercando di inviare è al di là del contenuto del frame singolo, sono stato fortemente criticato per aver l’atto professionale di usare la stessa didascalia generale per più fotogrammi.

“Tu affermi che noi influenziamo gli eventi, quindi è necessario mostrarlo nella fotografia” è stato uno dei commenti che ricordo, “mostra il fotografo che dice a un ragazzo di posare per la macchina fotografica”. Ciò è chiaramente mancare il punto, influenzare un evento non significa attivamente manipolarlo. Altri dicevano che le fotografie non sono gran che, che chiunque avrebbe potuto prenderle. E questo era uno dei miei obiettivi: la produzione di non-drammatiche e super “estetizzate” fotografie. Ma molti sostengono che una foto senza dramma faccia un po ‘vignettatura, sia solo un altro “quadro Facebook”….

 

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